Ubi Petrus, ibi Ecclesia: "Dove c'è Pietro, lì c'è la Chiesa" (Sant'Ambrogio, Explanatio Psalmi XL, 30, 5)

domenica 30 aprile 2017

PAPA FRANCESCO SI RIVOLGE ALL'AZIONE CATTOLICA ITALIANA PER IL 150° ANNIVERSARIO DI FONDAZIONE



DISCORSO DI PAPA FRANCESCO
ALL'AZIONE CATTOLICA ITALIANA
Piazza San Pietro
Domenica, 30 aprile 2017


Mettetevi nella grande politica, nella Politica con la maiuscola





Cari amici dell’Azione Cattolica, buongiorno!
sono davvero felice di incontrarvi oggi, così numerosi e in festa per il 150° anniversario di fondazione della vostra Associazione. Vi saluto tutti con affetto ad iniziare dall’Assistente generale e dal Presidente nazionale, che ringrazio per le parole con cui hanno introdotto questo incontro. La nascita dell’Azione Cattolica Italiana fu un sogno, nato dal cuore di due giovani, Mario Fani e Giovanni Acquaderni, che è diventato nel tempo cammino di fede per molte generazioni, vocazione alla santità per tantissime persone: ragazzi, giovani e adulti che sono diventati discepoli di Gesù e, per questo, hanno provato a vivere come testimoni gioiosi del suo amore nel mondo. Anche per me è un po’ aria di famiglia: mio papà, mia nonna, erano dell’Azione cattolica!
È una storia bella e importante, per la quale avete tante ragioni di essere grati al Signore e per la quale la Chiesa vi è riconoscente. È la storia di un popolo formato da uomini e donne di ogni età e condizione, che hanno scommesso sul desiderio di vivere insieme l’incontro con il Signore: piccoli e grandi, laici e pastori, insieme, indipendentemente dalla posizione sociale, dalla preparazione culturale, dal luogo di provenienza. Fedeli laici che in ogni tempo hanno condiviso la ricerca delle strade attraverso cui annunciare con la propria vita la bellezza dell’amore di Dio e contribuire, con il proprio impegno e la propria competenza, alla costruzione di una società più giusta, più fraterna, più solidale. È una storia di passione per il mondo e per la Chiesa - ricordavo quando vi ho parlato di un libro scritto in Argentina nel ’37 che diceva:  “Azione cattolica e passione cattolica”! - e dentro di questa storia cui sono cresciute figure luminose di uomini e donne di fede esemplare, che hanno servito il Paese con generosità e coraggio.
Avere una bella storia alle spalle non serve però per camminare con gli occhi all’indietro, non serve per guardarsi allo specchio, non serve per mettersi comodi in poltrona! Non dimenticare questo: non camminare con gli occhi all’indietro, farete uno schianto! Non guardarsi allo specchio! In tanti siamo brutti, meglio non guardarsi! E non mettersi comodi in poltrona, questo ingrassa e fa male al colesterolo! Fare memoria di un lungo itinerario di vita aiuta a rendersi consapevoli di essere popolo che cammina prendendosi cura di tutti, aiutando ognuno a crescere umanamente e nella fede, condividendo la misericordia con cui il Signore ci accarezza. Vi incoraggio a continuare ad essere un popolo di discepoli-missionari che vivono e testimoniano la gioia di sapere che il Signore ci ama di un amore infinito, e che insieme a Lui amano profondamente la storia in cui abitiamo. Così ci hanno insegnato i grandi testimoni di santità che hanno tracciato la strada della vostra associazione, tra i quali mi piace ricordare Giuseppe Toniolo, Armida Barelli, Piergiorgio Frassati, Antonietta Meo, Teresio Olivelli, Vittorio Bachelet. Azione Cattolica, vivi all’altezza della tua storia! Vivi all’altezza di queste donne e questi uomini che vi hanno preceduto.
In questi centocinquanta anni l’Azione Cattolica è sempre stata caratterizzata da un amore grande per Gesù e per la Chiesa. Anche oggi siete chiamati a proseguire la vostra peculiare vocazione mettendovi a servizio delle diocesi, attorno ai Vescovi - sempre -, e nelle parrocchie - sempre -, là dove la Chiesa abita in mezzo alle persone - sempre. Tutto il Popolo di Dio gode i frutti di questa vostra dedizione, vissuta in armonia tra Chiesa universale e Chiesa particolare. È nella vocazione tipicamente laicale a una santità vissuta nel quotidiano che potete trovare la forza e il coraggio per vivere la fede rimanendo lì dove siete, facendo dell’accoglienza e del dialogo lo stile con cui farvi prossimi gli uni agli altri, sperimentando la bellezza di una responsabilità condivisa. Non stancatevi di percorrere le strade attraverso le quali è possibile far crescere lo stile di un’autentica sinodalità, un modo di essere Popolo di Dio in cui ciascuno può contribuire a una lettura attenta, meditata, orante dei segni dei tempi, per comprendere e vivere la volontà di Dio, certi che l’azione dello Spirito Santo opera e fa nuove ogni giorno tutte le cose.
Vi invito a portare avanti la vostra esperienza apostolica radicati in parrocchia, «che non è una struttura caduca» - avete capito bene? La parrocchia non è una struttura caduca! -, perché «è presenza ecclesiale nel territorio, ambito dell’ascolto della Parola, della crescita della vita cristiana, del dialogo, dell’annuncio, della carità generosa, dell’adorazione e della celebrazione» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 28). La parrocchia è lo spazio in cui le persone possono sentirsi accolte così come sono, e possono essere accompagnate attraverso percorsi di maturazione umana e spirituale a crescere nella fede e nell’amore per il creato e per i fratelli. Questo è vero però solo se la parrocchia non si chiude in sé stessa, se anche l’Azione Cattolica che vive in parrocchia non si chiude in sé stessa, ma aiuta la parrocchia perché rimanga «in contatto con le famiglie e con la vita del popolo e non diventi una struttura prolissa separata dalla gente o un gruppo di eletti che guardano a se stessi» (ibid.). Per favore, questo no!
Cari soci di Azione Cattolica, ogni vostra iniziativa, ogni proposta, ogni cammino sia esperienza missionaria, destinata all’evangelizzazione, non all’autoconservazione. Il vostro appartenere alla diocesi e alla parrocchia si incarni lungo le strade delle città, dei quartieri e dei paesi. Come è accaduto in questi centocinquanta anni, sentite forte dentro di voi la responsabilità di gettare il seme buono del Vangelo nella vita del mondo, attraverso il servizio della carità, l’impegno politico, - mettetevi in politica, ma per favore nella grande politica, nella Politica con la maiuscola! - attraverso  anche la passione educativa e la partecipazione al confronto culturale. Allargate il vostro cuore per allargare il cuore delle vostre parrocchie. Siate viandanti della fede, per incontrare tutti, accogliere tutti, ascoltare tutti, abbracciare tutti. Ogni vita è vita amata dal Signore, ogni volto ci mostra il volto di Cristo, specialmente quello del povero, di chi è ferito dalla vita e di chi si sente abbandonato, di chi fugge dalla morte e cerca riparo tra le nostre case, nelle nostre città. «Nessuno può sentirsi esonerato dalla preoccupazione per i poveri e per la giustizia sociale» (ibid., 201).
Rimanete aperti alla realtà che vi circonda. Cercate senza timore il dialogo con chi vive accanto a voi, anche con chi la pensa diversamente ma come voi desidera la pace, la giustizia, la fraternità. È nel dialogo che si può progettare un futuro condiviso. È attraverso il dialogo che costruiamo la pace, prendendoci cura di tutti e dialogando con tutti.
Cari ragazzi, giovani e adulti di Azione Cattolica: andate, raggiungete tutte le periferie! Andate, e là siate Chiesa, con la forza dello Spirito Santo.
Vi sostenga la protezione materna della Vergine Immacolata; vi accompagnino l’incoraggiamento e la stima dei Vescovi; come anche la mia Benedizione che di cuore imparto su di voi e sull’intera Associazione. E per favore non dimenticatevi di pregare per me!

sabato 29 aprile 2017

PAPA FRANCESCO: "L’UNICO ESTREMISMO AMMESSO PER I CREDENTI E' QUELLO DELLA CARITA'!"

SANTA MESSA
OMELIA DEL SANTO PADRE
Air Defense Stadium, Il Cairo
Sabato, 29 aprile 2017





 E' meglio non credere che essere un falso credente, un ipocrita!




Al Salamò Alaikum/ la pace sia con voi!
Oggi il vangelo, nella III Domenica di Pasqua, ci parla dell’itinerario dei due discepoli di Emmaus che lasciarono Gerusalemme. Un vangelo che si può riassumere in tre parole: morte, risurrezione e vita.
Morte. I due discepoli tornano alla loro vita quotidiana, carichi di delusione e disperazione: il Maestro è morto e quindi è inutile sperare. Erano disorientati, illusi e delusi. Il loro cammino è un tornare indietro; è un allontanarsi dalla dolorosa esperienza del Crocifisso. La crisi della Croce, anzi lo “scandalo” e la “stoltezza” della Croce (cfr 1 Cor 1,18; 2,2), sembra aver seppellito ogni loro speranza. Colui sul quale hanno costruito la loro esistenza è morto, sconfitto, portando con sé nella tomba ogni loro aspirazione.
Non potevano credere che il Maestro e il Salvatore che aveva risuscitato i morti e guarito gli ammalati potesse finire appeso alla croce della vergogna. Non potevano capire perché Dio Onnipotente non l’avesse salvato da una morte così ignobile. La croce di Cristo era la croce delle loro idee su Dio; la morte di Cristo era una morte di ciò che immaginavano fosse Dio. Erano loro, infatti, i morti nel sepolcro della limitatezza della loro comprensione.
Quante volte l’uomo si auto-paralizza, rifiutando di superare la propria idea di Dio, di un dio creato a immagine e somiglianza dell’uomo! Quante volte si dispera, rifiutando di credere che l’onnipotenza di Dio non è onnipotenza di forza, di autorità, ma è soltanto onnipotenza di amore, di perdono e di vita!
I discepoli riconobbero Gesù “nello spezzare il pane”, nell’Eucaristia. Se noi non ci lasciamo spezzare il velo che offusca i nostri occhi, se non ci lasciamo spezzare l’indurimento del nostro cuore e dei nostri pregiudizi, non potremo mai riconoscere il volto di Dio.
Risurrezione. Nell’oscurità della notte più buia, nella disperazione più sconvolgente, Gesù si avvicina a loro e cammina sulla loro via perché possano scoprire che Lui è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Gesù trasforma la loro disperazione in vita, perché quando svanisce la speranza umana incomincia a brillare quella divina: «Ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio» (Lc 18,27; cfr 1,37). Quando l’uomo tocca il fondo del fallimento e dell’incapacità, quando si spoglia dell’illusione di essere il migliore, di essere autosufficiente, di essere il centro del mondo, allora Dio gli tende la mano per trasformare la sua notte in alba, la sua afflizione in gioia, la sua morte in risurrezione, il suo cammino all’indietro in ritorno a Gerusalemme, cioè in ritorno alla vita e alla vittoria della Croce (cfr Eb 11,34).
I due discepoli, difatti, dopo aver incontrato il Risorto, ritornano pieni di gioia, di fiducia e di entusiasmo, pronti alla testimonianza. Il Risorto li ha fatti risorgere dalla tomba della loro incredulità e afflizione. Incontrando il Crocifisso-Risorto hanno trovato la spiegazione e il compimento di tutta la Scrittura, della Legge e dei Profeti; hanno trovato il senso dell’apparente sconfitta della Croce.
Chi non passa attraverso l’esperienza della Croce fino alla Verità della Risurrezione si autocondanna alla disperazione. Infatti, noi non possiamo incontrare Dio senza crocifiggere prima le nostre idee limitate di un dio che rispecchia la nostra comprensione dell’onnipotenza e del potere.
Vita. L’incontro con Gesù risorto ha trasformato la vita di quei due discepoli, perché incontrare il Risorto trasforma ogni vita e rende feconda qualsiasi sterilità.[1] Infatti, la Risurrezione non è una fede nata nella Chiesa, ma la Chiesa è nata dalla fede nella Risurrezione. Dice San Paolo: «Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede» (1 Cor 15,14).
Il Risorto sparisce dai loro occhi, per insegnarci che non possiamo trattenere Gesù nella sua visibilità storica: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (Gv 20,29; cfr 20,17). La Chiesa deve sapere e credere che Egli è vivo con lei e la vivifica nell’Eucaristia, nelle Scritture e nei Sacramenti. I discepoli di Emmaus capirono questo e tornarono a Gerusalemme per condividere con gli altri la loro esperienza: “Abbiamo visto il Signore … Sì, è davvero risorto!” (cfr Lc 24,32).
L’esperienza dei discepoli di Emmaus ci insegna che non serve riempire i luoghi di culto se i nostri cuori sono svuotati del timore di Dio e della Sua presenza; non serve pregare se la nostra preghiera rivolta a Dio non si trasforma in amore rivolto al fratello; non serve tanta religiosità se non è animata da tanta fede e da tanta carità; non serve curare l’apparenza, perché Dio guarda l’anima e il cuore (cfr 1 Sam 16,7) e detesta l’ipocrisia (cfr Lc 11,37-54; At 5,3-4).[2] Per Dio, è meglio non credere che essere un falso credente, un ipocrita!
La fede vera è quella che ci rende più caritatevoli, più misericordiosi, più onesti e più umani; è quella che anima i cuori per portarli ad amare tutti gratuitamente, senza distinzione e senza preferenze; è quella che ci porta a vedere nell’altro non un nemico da sconfiggere, ma un fratello da amare, da servire e da aiutare; è quella che ci porta a diffondere, a difendere e a vivere la cultura dell’incontro, del dialogo, del rispetto e della fratellanza; ci porta al coraggio di perdonare chi ci offende, di dare una mano a chi è caduto; a vestire chi è nudo, a sfamare l’affamato, a visitare il carcerato, ad aiutare l’orfano, a dar da bere all’assetato, a soccorrere l’anziano e il bisognoso (cfr Mt 25,31-45). La vera fede è quella che ci porta a proteggere i diritti degli altri, con la stessa forza e con lo stesso entusiasmo con cui difendiamo i nostri. In realtà, più si cresce nella fede e nella conoscenza, più si cresce nell’umiltà e nella consapevolezza di essere piccoli.

Cari fratelli e sorelle,
Dio gradisce solo la fede professata con la vita, perché l’unico estremismo ammesso per i credenti è quello della carità! Qualsiasi altro estremismo non viene da Dio e non piace a Lui!
Ora, come i discepoli di Emmaus, tornate alla vostra Gerusalemme, cioè alla vostra vita quotidiana, alle vostre famiglie, al vostro lavoro e alla vostra cara patria pieni di gioia, di coraggio e di fede. Non abbiate paura di aprire il vostro cuore alla luce del Risorto e lasciate che Lui trasformi la vostra incertezza in forza positiva per voi e per gli altri. Non abbiate paura di amare tutti, amici e nemici, perché nell’amore vissuto sta la forza e il tesoro del credente!
La Vergine Maria e la Sacra Famiglia, che vissero su questa terra benedetta, illuminino i nostri cuori e benedicano voi e il caro Egitto che, all’alba del cristianesimo, accolse l’evangelizzazione di San Marco e diede lungo la storia numerosi martiri e una grande schiera di santi e di sante!
Al Massih Kam / Bilhakika kam! – Cristo è Risorto / È veramente Risorto!

 

[1] Cfr Benedetto XVI, Catechesi, Udienza generale di mercoledì 11 aprile 2007.
[2] Esclama S. Efrem: «Ma strappate la maschera che copre l'ipocrita e voi non vi vedrete che marciume» (Serm.). «Guai a chi è doppio di cuore!» - dice l'Ecclesiastico (2,14 Volg.).


venerdì 28 aprile 2017

DICHIARAZIONE COMUNE DI SUA SANTITÀ FRANCESCO E DI SUA SANTITÀ TAWADROS II

FRANCESCO E TAWADROS II
UNITI PER LA PACE E PER LA LIBERTA'

 "L’ecumenismo dei martiri ci unisce e ci incoraggia a proseguire sulla strada della pace e della riconciliazione"



1. Noi, Francesco, Vescovo di Roma e Papa della Chiesa Cattolica, e Tawadros II, Papa di Alessandria e Patriarca della Sede di San Marco, rendiamo grazie nello Spirito Santo a Dio per averci concesso la felice opportunità di incontrarci ancora, di scambiare l’abbraccio fraterno e di unirci nuovamente in comune preghiera. Diamo gloria all’Onnipotente per i vincoli di fraternità e di amicizia che sussistono tra la Sede di San Pietro e la Sede di San Marco. Il privilegio di trovarci insieme qui in Egitto è un segno che la solidità della nostra relazione sta aumentando di anno in anno e che stiamo crescendo nella vicinanza, nella fede e nell’amore di Cristo nostro Signore. Rendiamo grazie a Dio per l’amato Egitto, “terra natale che vive in noi”, come Sua Santità Papa Shenouda III era solito dire, “popolo benedetto dal Signore” (cfr Is 19,25), con la sua antica civiltà dei Faraoni, l’eredità greca e romana, la tradizione copta e la presenza islamica. L’Egitto è il luogo dove trovò rifugio la Sacra Famiglia, è terra di martiri e di santi.
2. Il nostro profondo legame di amicizia e di fraternità rinviene le proprie origini nella piena comunione che esisteva tra le nostre Chiese nei primi secoli ed è stato espresso in vari modi nei primi Concili Ecumenici, a partire da quello di Nicea del 325 e dal contributo del coraggioso Padre della Chiesa Sant’Atanasio, che meritò il titolo di “Protettore della Fede”. La nostra comunione si è manifestata mediante la preghiera e pratiche liturgiche simili, attraverso la venerazione dei medesimi martiri e santi, nello sviluppo e nella diffusione del monachesimo a seguito dell’esempio di Sant’Antonio il Grande, conosciuto come il padre di tutti i monaci.
Questa comune esperienza di comunione precedente al tempo della separazione assume un significato particolare nella nostra ricerca del ristabilimento della piena comunione oggi. La maggior parte delle relazioni che esistevano nei primi secoli sono continuate, nonostante le divisioni, tra la Chiesa Cattolica e la Chiesa Ortodossa Copta fino al presente e recentemente si sono anche rivitalizzate. Esse ci stimolano a intensificare i nostri sforzi comuni, perseverando nella ricerca di un’unità visibile nella diversità, sotto la guida dello Spirito Santo.
3. Ricordiamo con gratitudine lo storico incontro di quarantaquattro anni fa tra i nostri predecessori Papa Paolo VI e Papa Shenouda III, quell’abbraccio di pace e di fraternità dopo molti secoli in cui i nostri reciproci legami di affetto non avevano avuto la possibilità di esprimersi a motivo della distanza che era sorta tra noi. La Dichiarazione Comune che essi firmarono il 10 maggio 1973 rappresenta una pietra miliare nel cammino ecumenico ed è servita come punto di partenza per l’istituzione della Commissione per il dialogo teologico tra le nostre due Chiese, che ha dato molto frutto e ha aperto la via a un più ampio dialogo tra la Chiesa Cattolica e l’intera famiglia delle Chiese Ortodosse Orientali. In quella Dichiarazione le nostre Chiese hanno riconosciuto che, in linea con la tradizione apostolica, professano “un’unica fede in un solo Dio Uno e Trino” e la “divinità dell’Unico Figlio Incarnato di Dio, […] Dio perfetto riguardo alla Sua Divinità, e perfetto uomo riguardo alla Sua umanità”. È stato altresì riconosciuto che “la vita divina ci viene data e alimentata attraverso i sette sacramenti” e che “noi veneriamo la Vergine Maria, Madre della Vera Luce”, la “Theotokos”.
4. Con estrema gratitudine ricordiamo il nostro fraterno incontro a Roma il 10 maggio 2013 e l’istituzione del 10 maggio come giorno in cui ogni anno approfondiamo l’amicizia e la fraternità tra le nostre Chiese. Questo rinnovato spirito di vicinanza ci ha permesso di discernere meglio ancora come il vincolo che ci unisce è stato ricevuto dal nostro unico Signore nel giorno del Battesimo. Infatti, è attraverso il Battesimo che diventiamo membra dell’unico Corpo di Cristo che è la Chiesa (cfr 1 Cor 12,13). Questa comune eredità è la base del pellegrinaggio che insieme compiamo verso la piena comunione, crescendo nell’amore e nella riconciliazione.
5. Consapevoli che in tale pellegrinaggio ci rimane ancora molto cammino da fare, richiamiamo alla memoria quanto è già stato compiuto. In particolare, ricordiamo l’incontro tra Papa Shenouda III e San Giovanni Paolo II, che venne pellegrino in Egitto durante il Grande Giubileo dell’anno 2000. Siamo determinati nel seguire i loro passi, mossi dall’amore di Cristo Buon Pastore, nella profonda convinzione che camminando insieme cresciamo nell’unità. Perciò attingiamo la forza da Dio, fonte perfetta di comunione e di amore.
6. Questo amore trova la sua più alta espressione nella preghiera comune. Quando i Cristiani pregano insieme, giungono a comprendere che ciò che li unisce è molto più grande di ciò che li divide. Il nostro desiderio ardente di unità trova ispirazione dalla preghiera di Cristo “perché tutti siano una sola cosa” (Gv 17,21). Perciò approfondiamo le nostre radici nell’unica fede apostolica pregando insieme, cercando traduzioni comuni della preghiera del Signore e una data comune per la celebrazione della Pasqua.
7. Mentre camminiamo verso il giorno benedetto nel quale finalmente ci riuniremo insieme alla stessa Mensa eucaristica, possiamo collaborare in molti ambiti e rendere tangibile la grande ricchezza che già abbiamo in comune. Possiamo dare insieme testimonianza a valori fondamentali quali la santità e la dignità della vita umana, la sacralità del matrimonio e della famiglia e il rispetto dell’intera creazione che Dio ci ha affidato. Nonostante molteplici sfide contemporanee, come la secolarizzazione e la globalizzazione dell’indifferenza, siamo chiamati a offrire una risposta condivisa, basata sui valori del Vangelo e sui tesori delle nostre rispettive tradizioni. A tale riguardo, siamo incoraggiati a intraprendere uno studio maggiormente approfondito dei Padri Orientali e Latini e a promuovere scambi proficui nella vita pastorale, specialmente nella catechesi e in un vicendevole arricchimento spirituale tra comunità monastiche e religiose.
8. La nostra condivisa testimonianza cristiana è un provvidenziale segno di riconciliazione e di speranza per la società egiziana e per le sue istituzioni, un seme piantato per portare frutti di giustizia e di pace. Dal momento che crediamo che tutti gli esseri umani sono creati a immagine di Dio, ci sforziamo di promuovere la serenità e la concordia attraverso una coesistenza pacifica tra Cristiani e Musulmani, testimoniando in questo modo che Dio desidera l’unità e l’armonia dell’intera famiglia umana e la pari dignità di ogni essere umano. Abbiamo a cuore la prosperità e il futuro dell’Egitto. Tutti i membri della società hanno il diritto e il dovere di partecipare pienamente alla vita del Paese, godendo di piena e pari cittadinanza e collaborando a edificare la loro nazione. La libertà religiosa, che comprende la libertà di coscienza ed è radicata nella dignità della persona, è il fondamento di tutte le altre libertà. È un diritto sacro e inalienabile.
9. Intensifichiamo la nostra incessante preghiera per tutti i Cristiani in Egitto e nel mondo, specialmente per quelli nel Medio Oriente. Alcuni tragici avvenimenti e il sangue versato dai nostri fedeli, perseguitati e uccisi per il solo motivo di essere cristiani, ci ricordano più che mai che l’ecumenismo dei martiri ci unisce e ci incoraggia a proseguire sulla strada della pace e della riconciliazione. Perché, come scrive San Paolo, “se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme” (1 Cor 12,26).
10. Il mistero di Gesù, morto e risorto per amore, sta al cuore del nostro cammino verso la piena unità. Ancora una volta i martiri sono le nostre guide. Nella Chiesa primitiva il sangue dei martiri fu seme di nuovi Cristiani. Così pure, ai nostri giorni, il sangue di tanti martiri possa essere seme di unità tra tutti i discepoli di Cristo, segno e strumento di comunione e di pace per il mondo.
11. Obbedienti all’azione dello Spirito Santo, che santifica la Chiesa, lungo i secoli la sorregge e conduce a quella piena unità per la quale Cristo ha pregato, oggi noi, Papa Francesco e Papa Tawadros II, al fine di allietare il cuore del Signore Gesù, nonché i cuori dei nostri figli e figlie nella fede, dichiariamo reciprocamente che con un’anima sola e un cuore solo cercheremo, in tutta sincerità, di non ripetere il Battesimo amministrato in una delle nostre Chiese ad alcuno che desideri ascriversi all’altra. Tanto attestiamo in obbedienza alle Sacre Scritture e alla fede espressa nei tre Concili Ecumenici celebrati a Nicea, a Costantinopoli e a Efeso.
Chiediamo a Dio nostro Padre di guidarci, nei tempi e nei modi che lo Spirito Santo disporrà, alla piena unità nel Corpo mistico di Cristo.
12. Pertanto, lasciamoci condurre dagli insegnamenti e dall’esempio dell’Apostolo Paolo, il quale scrive: “[comportatevi] avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Ef 4,3-6).
Cairo, 28 aprile 2017

mercoledì 26 aprile 2017

VIDEOMESSAGGIO DI PAPA FRANCESCO AL POPOLO EGIZIANO


IL POTERE SENZA UMILTA' DA' ALLA TESTA


PAPA FRANCESCO RIVOLGE UN MESSAGGIO
AL TED 2017 DI VANCOUVER

[26 APRILE 2017]

 "Ognuno di noi può essere una candela accesa che ricorda che la luce prevale sulle tenebre, non il contrario"

di Antonino Legname


Con un videomessaggio, Papa Francesco si è rivolto al TED 2017 di Vancouver. Cos'è il TED (Technology Entertainment Design)? E' un marchio di conferenze statunitensi, gestite dall'organizzazione privata no-profit, che è nato nel febbraio 1984 come evento singolo e nel 1990 si è trasformato in una conferenza annuale. Inizialmente l'interesse era focalizzato su tecnologia e design, coerentemente con la sua origine nella Silicon Valley, ma in seguito ha esteso il suo raggio di competenza al mondo scientifico, culturale ed accademico. Ha come obiettivo di diffondere e di sostenere con diverse iniziative le idee che cambiano il mondo.
Papa Francesco coglie l'occasione per intervenire, con un videomessaggio, all'incontro del TED; ha apprezzato anzitutto il titolo dell'evento di quest'anno – “The future you” – e ha spiegato il perché: "mentre guarda al domani, invita già da oggi al dialogo: guardando al futuro, invita a rivolgersi a un <tu>. The future you, il futuro è fatto di te, è fatto cioè di incontri, perché la vita scorre attraverso le relazioni". 



Francesco ha riferito che nel corso della sua vita ha maturato la convinzione che nel mondo siamo tutti interdipendenti e che "l’esistenza di ciascuno di noi è legata a quella degli altri: la vita non è tempo che passa, ma tempo di incontro". Il Santo Padre, di fronte alle tante sofferenze di oggi -  ammalati, migranti, carcerati, disoccupati -  si pone la domanda: <Perché loro e non io?> E ricorda: "Anch’io sono nato in una famiglia di migranti: mio papà, i miei nonni, come tanti altri italiani, sono partiti per l’Argentina e hanno conosciuto la sorte di chi resta senza nulla. Anch’io avrei potuto essere tra gli <scartati> di oggi". Il Vescovo di Roma ci ricorda che "abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri, che nessuno di noi è un’isola, un io autonomo e indipendente dagli altri, che possiamo costruire il futuro solo insieme, senza escludere nessuno"
Il Papa esorta anzitutto a bonificare e a risanarae il proprio territorio interiore e spiega: "quel giudizio duro che porto nel cuore contro mio fratello o mia sorella, quella ferita non curata, quel male non perdonato, quel rancore che mi farà solo male". Si tratta di un "pezzetto di guerra" che ciascuno porta dentro; e aggiunge: "è un focolaio nel cuore, da spegnere perché non divampi in un incendio e non lasci cenere". Francesco invita, inoltre, a guardare il futuro con ottimismo perché un futuro felice è possibile. Sono comprensibili i timori e le preoccupazioni di tanti che guardano l'incertezza del futuro. Ma queste paure - dice il Papa - si possono superare "se non ci chiudiamo in noi stessi".
Non c'è dubbio che il nostro mondo sia interconnesso e che tutte le cose si comprendono in relazione con le altre. Il Papa auspica che al continuo progresso scientifico e tecnologico corrisponda "una sempre maggiore equità e inclusione sociale". A che serve scoprire nuovi pianeti lontani se non si riscoprono i bisogni di coloro che sono a noi vicini e orbitano attorno a noi.
Il Papa chiede di stare attenti affinché "la parola così bella e a volte scomoda" <solidarietà>, non si riduca alla sola assistenza sociale, e alla filantropia, ma possa diventare "atteggiamento di fondo nelle scelte a livello politico, economico, scientifico, nei rapporti tra le persone, tra i popoli e i Paesi". E ancora una volta, il Santo Padre, ci ricorda che per superare la <cultura dello scarto> , è necessaria l'<educazione alla fraternità> che aiuti a ricollocare l'uomo al centro dei "sistemi tecno-economici" di oggi. La solidarietà non si impone ma deve nascere come risposta libera nel cuore di ciascuno. E per far comprendere meglio la creatività libera e concreta dell'amore, il Papa racconta e commenta la parabola del Buon Samaritano: "è la storia dell’umanità di oggi. Sul cammino dei popoli ci sono ferite provocate dal fatto che al centro c’è il denaro, ci sono le cose, non le persone. E c’è l’abitudine spesso di chi si ritiene <per bene>, di non curarsi degli altri, lasciando tanti esseri umani, interi popoli, indietro, a terra per la strada".
Anche in mezzo a tanto male, bisogna imparare a fare il bene e a "farlo insieme" - ha consigliato il Papa - "Ora voi mi direte: <sì, sono belle parole, ma io non sono il Buon Samaritano e nemmeno Madre Teresa di Calcutta>. Invece ciascuno di noi è prezioso; ciascuno di noi è insostituibile agli occhi di Dio. Nella notte dei conflitti che stiamo attraversando, ognuno di noi può essere una candela accesa che ricorda che la luce prevale sulle tenebre, non il contrario". A questo punto Francesco parla di quella speranza che non si confonde con l'ottimismo ingenuo, e che sa vedere oltre il buio, non si ferma al passato, non vivacchia nel presente, ma sa guardare in avanti verso il futuro. 
"La speranza è la porta aperta sull’avvenire. La speranza è un seme di vita umile e nascosto, che però si trasforma col tempo in un grande albero; è come un lievito invisibile, che fa crescere tutta la pasta, che dà sapore a tutta la vita. E può fare tanto, perché basta una sola piccola luce che si alimenta di speranza, e il buio non sarà più completo. Basta un solo uomo perché ci sia speranza, e quell’uomo puoi essere tu. Poi c’è un altro “tu” e un altro “tu”, e allora diventiamo “noi”. E quando c’è il “noi”, comincia la speranza? No. Quella è incominciata con il “tu”. Quando c’è il noi, comincia una rivoluzione". 
E infine, Papa Francesco, parla di un tema a Lui molto caro: la "rivoluzione della tenerezza". E spiega il significato della tenerezza: "È l’amore che si fa vicino e concreto. È un movimento che parte dal cuore e arriva agli occhi, alle orecchie, alle mani. La tenerezza è usare gli occhi per vedere l’altro, usare le orecchie per sentire l’altro, per ascoltare il grido dei piccoli, dei poveri, di chi teme il futuro; ascoltare anche il grido silenzioso della nostra casa comune, della terra contaminata e malata. La tenerezza significa usare le mani e il cuore per accarezzare l’altro. Per prendersi cura di lui". Solo guardando un bambino è più facile comprendere il significa di <tenerezza>: "un bambino si affeziona e conosce il papà e la mamma per le carezze, per lo sguardo, per la voce, per la tenerezza". Francesco confida: "A me piace sentire quando il papà o la mamma parlano al loro piccolo bambino, quando anche loro si fanno bambini, parlando come parla lui, il bambino. Questa è la tenerezza: abbassarsi al livello dell’altro. Anche Dio si è abbassato in Gesù per stare al nostro livello. Questa è la strada percorsa dal Buon Samaritano. Questa è la strada percorsa da Gesù, che si è abbassato, che ha attraversato tutta la vita dell’uomo con il linguaggio concreto dell’amore".Si sabliano coloro che pensano che <tenerezza> sia sinonimo di <debolezza>, al contrario "la tenerezza è la strada che hanno percorso gli uomini e le donne più coraggiosi e forti [...] È la strada della solidarietà, la strada dell’umiltà". Il Pontefice dice chiaramente  che colui che nel mondo è più potente deve imparare ad  essere umile, perché altrimenti il potere vissuto con orgoglio logora e rovina se stessi e gli altri. E per far capire il conceto, il Papa porta un esempio "il gin che preso a digiuno: ti fa girare la testa, ti fa ubriacare, ti fa perdere l’equilibrio e ti porta a fare del male a te stesso e agli altri, se non lo metti insieme all’umiltà e alla tenerezza". Solo con l’umiltà e l’amore concreto il potere, anche quello più alto e più forte, si trasforma in servizio e semina il bene.
Papa Francesco conclude il suo videomessaggio dicendo che "il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei politici, dei grandi leader, delle grandi aziende. Sì, la loro responsabilità è enorme. Ma il futuro è soprattutto nelle mani delle persone che riconoscono l’altro come un <tu> e se stessi come parte di un <noi>. Abbiamo bisogno gli uni degli altri. E perciò, per favore, ricordatevi anche di me con tenerezza, perché svolga il compito che mi è stato affidato per il bene degli altri, di tutti, di tutti voi, di tutti noi".

domenica 23 aprile 2017

PAPA FRANCESCO RICORDA DON LORENZO MILANI, PRIORE DI BARBIANA

VIDEOMESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALLA PRESENTAZIONE DELL'
OPERA OMNIA 
DI DON LORENZO MILANI
ALLA FIERA DELL'EDITORIA ITALIANA
(MILANO, 19-23 APRILE 2017)



«Non mi ribellerò mai alla Chiesa perché ho bisogno più volte alla settimana del perdono dei miei peccati, e non saprei da chi altri andare a cercarlo quando avessi lasciato la Chiesa». Così scrisse don Lorenzo Milani, priore di Barbiana, il 10 ottobre 1958. Vorrei proporre questo atto di abbandono alla Misericordia di Dio e alla maternità della Chiesa come prospettiva da cui guardare la vita, le opere ed il sacerdozio di don Lorenzo Milani.
Tutti abbiamo letto le tante opere di questo sacerdote toscano, morto ad appena 44 anni, e ricordiamo con particolare affetto la sua “Lettera ad una professoressa”, scritta insieme con i suoi ragazzi della scuola di Barbiana, dove egli è stato parroco. Come educatore ed insegnante egli ha indubbiamente praticato percorsi originali, talvolta, forse, troppo avanzati e, quindi, difficili da comprendere e da accogliere nell’immediato. La sua educazione familiare, proveniva da genitori non credenti e anticlericali, lo aveva abituato ad una dialettica intellettuale e ad una schiettezza che talvolta potevano sembrare troppo ruvide, quando non segnate dalla ribellione. Egli mantenne queste caratteristiche, acquisite in famiglia, anche dopo la conversione, avvenuta nel 1943, e nell’esercizio del suo ministero sacerdotale. Si capisce, questo ha creato qualche attrito e qualche scintilla, come pure qualche incomprensione con le strutture ecclesiastiche e civili, a causa della sua proposta educativa, della sua predilezione per i poveri e della difesa dell’obiezione di coscienza. La storia si ripete sempre. Mi piacerebbe che lo ricordassimo soprattutto come credente, innamorato della Chiesa anche se ferito, ed educatore appassionato con una visione della scuola che mi sembra risposta alla esigenza del cuore e dell’intelligenza dei nostri ragazzi e dei giovani.
Con queste parole mi rivolgevo al mondo della scuola italiana, citando proprio don Milani: «Amo la scuola perché è sinonimo di apertura alla realtà. Almeno così dovrebbe essere! Ma non sempre riesce ad esserlo, e allora vuol dire che bisogna cambiare un po’ l’impostazione. Andare a scuola significa aprire la mente e il cuore alla realtà, nella ricchezza dei suoi aspetti, delle sue dimensioni. E noi non abbiamo diritto ad aver paura della realtà! La scuola ci insegna a capire la realtà. Andare a scuola significa aprire la mente e il cuore alla realtà, nella ricchezza dei suoi aspetti, delle sue dimensioni. E questo è bellissimo! Nei primi anni si impara a 360 gradi, poi piano piano si approfondisce un indirizzo e infine ci si specializza. Ma se uno ha imparato ad imparare – è questo il segreto, imparare ad imparare! –, questo gli rimane per sempre, rimane una persona aperta alla realtà! Questo lo insegnava anche un grande educatore italiano che era un prete: Don Lorenzo Milani». Così mi rivolgevo all'educazione italiana, alla scuola italiana, il 10 maggio 2014. 
La sua inquietudine, però, non era frutto di ribellione ma di amore e di tenerezza per i suoi ragazzi, per quello che era il suo gregge, per il quale soffriva e combatteva, per donargli la dignità che, talvolta, veniva negata. La sua era un’inquietudine spirituale, alimentata dall’amore per Cristo, per il Vangelo, per la Chiesa, per la società e per la scuola che sognava sempre più come “un ospedale da campo” per soccorrere i feriti, per recuperare gli emarginati e gli scartati. Apprendere, conoscere, sapere, parlare con franchezza per difendere i propri diritti erano verbi che don Lorenzo coniugava quotidianamente a partire dalla lettura della Parola di Dio e dalla celebrazione dei Sacramenti, tanto che un sacerdote che lo conosceva molto bene diceva di lui che aveva fatto “indigestione di Cristo”. Il Signore era la luce della vita di don Lorenzo, la stessa che vorrei illuminasse il nostro ricordo di lui. L’ombra della croce si è allungata spesso sulla sua vita, ma egli si sentiva sempre partecipe del Mistero Pasquale di Cristo, e della Chiesa, tanto da manifestare, al suo padre spirituale, il desiderio che i suoi cari “vedessero come muore un prete cristiano”. La sofferenza, le ferite subite, la croce, non hanno mai offuscato in lui la luce pasquale del Cristo Risorto, perché la sua preoccupazione era una sola, che i suoi ragazzi crescessero con la mente aperta e con il cuore accogliente e pieno di compassione, pronti a chinarsi sui più deboli e a soccorrere i bisognosi, come insegna Gesù (cf Lc 10,29-37), senza guardare al colore della loro pelle, alla lingua, alla cultura, all’appartenenza religiosa.
Lascio la conclusione, come l’apertura, ancora a don Lorenzo, riportando le parole scritte ad uno dei suoi ragazzi. A Pipetta, il giovane comunista che gli diceva “se tutti i preti fossero come Lei, allora …”, Don Milani rispondeva: “Il giorno che avremo sfondato insieme la cancellata di qualche parco, istallato la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordati Pipetta, quel giorno ti tradirò, quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno di un sacerdote di Cristo: Beati i poveri perché il regno dei cieli è loro. Quel giorno io non resterò con te, io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso” (Lettera a Pipetta, 1950). Accostiamoci, allora, agli scritti di don Lorenzo Milani con l’affetto di chi guarda a lui come a un testimone di Cristo e del Vangelo, che ha sempre cercato, nella consapevolezza del suo essere peccatore perdonato, la luce e la tenerezza, la grazia e la consolazione che solo Cristo ci dona e che possiamo incontrare nella Chiesa nostra Madre.


sabato 22 aprile 2017

PAPA FRANCESCO CON LA COMUNITA' DI SANT'EGIDIO PER RICORDARE I MARTIRI DI IERI E DI OGGI

PAPA FRANCESCO 
PRESIEDE LA LITURGIA DELLA PAROLA 
CON LA COMUNITÀ DI SANT’EGIDIO,
NELLA BASILICA DI SAN BARTOLOMEO 

ALL'ISOLA TIBERINA A ROMA ,  
IN MEMORIA DEI “NUOVI MARTIRI” 
DEL XX E XXI SECOLO

 "I campi di rifugiati – tanti – sono di concentramento, 
per la folla di gente che è lasciata lì"

Papa Francesco a Lesbo





di Antonino Legname


Il 22 aprile 2017, durante la Liturgia della Parola con la Comunità di Sant'Egidio a Roma, Papa Francesco nell'Omelia ha ricordato che la Basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina è un luogo "dove la storia antica del martirio si unisce alla memoria dei nuovi martiri, dei tanti cristiani uccisi dalle folli ideologie del secolo scorso – e anche oggi – e uccisi solo perché discepoli di Gesù". Ricordare l'eroismo dei testimoni della fede di tutti i tempi - ha detto Francesco -  "ci conferma nella consapevolezza che la Chiesa è Chiesa se è Chiesa di martiri". Ma chi sono i martiri?  Il Pontefice spiega che i martiri sono coloro che, come ci ricorda il Libro dell’Apocalisse, «vengono dalla grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (7,17). "Essi hanno avuto la grazia di confessare Gesù fino alla fine, fino alla morte. Loro soffrono, loro danno la vita, e noi riceviamo la benedizione di Dio per la loro testimonianza". Ma non bisogna dimenticare - ha detto il Papa - che "ci sono anche tanti martiri nascosti, quegli uomini e quelle donne fedeli alla forza mite dell’amore, alla voce dello Spirito Santo, che nella vita di ogni giorno cercano di aiutare i fratelli e di amare Dio senza riserve". Ma cosa c'è alla base di ogni persecuzione? Francesco individua nell'odio del principe di questo mondo la causa principale di tanta avversione e violenza verso i cristiani. E ricorda le parole di Gesù: “Non spaventatevi! Il mondo vi odierà; ma sappiate che prima di voi ha odiato me”. La Chiesa di oggi ha bisogno di martiri, cioè di testimoni credibili, di santi della vita ordinaria, "perché - ha spiegato il Papa -  la Chiesa la portano avanti i santi". Non solo i santi di tutti i giorni ma anche coloro che accettano con coraggio il martirio cruento, anche a costo della stessa vita."Tutti costoro - ha detto Francesco - sono il sangue vivo della Chiesa. Sono i testimoni che portano avanti la Chiesa; quelli che attestano che Gesù è risorto, che Gesù è vivo, e lo attestano con la coerenza di vita e con la forza dello Spirito Santo che hanno ricevuto in dono". E' particolarmente struggente il racconto di Papa Francesco in merito ad una sua esperienza vissuta durante il viaggio a Lesbo: "Una donna. Non so il nome. Ma lei ci guarda dal cielo. Ero a Lesbo, salutavo i rifugiati e ho trovato un uomo trentenne, con tre bambini. Mi ha guardato e mi ha detto: <<Padre, io sono musulmano. Mia moglie era cristiana. Nel nostro Paese sono venuti i terroristi, ci hanno guardato e ci hanno chiesto la religione e hanno visto lei con il crocifisso, e le hanno chiesto di buttarlo per terra. Lei non lo ha fatto e l’hanno sgozzata davanti a me. Ci amavamo tanto!>>. Questa è l’icona che porto oggi come regalo qui. Non so se quell’uomo è ancora a Lesbo o è riuscito ad andare altrove. Non so se è stato capace di uscire da quel campo di concentramento, perché i campi di rifugiati – tanti – sono di concentramento, per la folla di gente che è lasciata lì. E i popoli generosi che li accolgono devono portare avanti anche questo peso, perché gli accordi internazionali sembra che siano più importanti dei diritti umani. E quest’uomo non aveva rancore: lui, musulmano, aveva questa croce del dolore portata avanti senza rancore. Si rifugiava nell’amore della moglie, graziata dal martirio". Questa è un'icona di vita vissuta e sofferta che Papa Francesco ha voluto aggiungere a quelle dei tanti martiri della Chiesa. "Ricordare questi testimoni della fede e pregare in questo luogo è un grande dono - ha detto Francesco -L’eredità viva dei martiri dona oggi a noi pace e unità. Essi ci insegnano che, con la forza dell’amore, con la mitezza, si può lottare contro la prepotenza, la violenza, la guerra e si può realizzare con pazienza la pace. E allora possiamo così pregare: O Signore, rendici degni testimoni del Vangelo e del tuo amore; effondi la tua misericordia sull’umanità; rinnova la tua Chiesa, proteggi i cristiani perseguitati, concedi presto la pace al mondo intero. A te, Signore, la gloria e a noi, Signore, la vergogna (cfr Dn 9,7)".

mercoledì 19 aprile 2017

FARE UNITA' NELLA DIVERSITA' (Terza parte)



L'UNITA' AD OGNI COSTO!?


“A volte sembra che si ripeta oggi quello che è accaduto a Babele”
(Terza parte)





di Antonino Legname



Senza la presenza e l'opera dello Spirito Santo ci sarebbe una grande Babele anche nella Chiesa cattolica. In occasione dell'Udienza Generale del 22 maggio 2013, Papa Francesco aveva detto: “A volte sembra che si ripeta oggi quello che è accaduto a Babele: divisioni, incapacità di comprendersi, rivalità, invidie, egoismo”. E invitava a mettersi in questione: “Io che cosa faccio con la mia vita? Faccio unità attorno a me? O divido, con le chiacchiere, le critiche, le invidie?”[1].  C’è chi ancora oggi si domanda, con un certo pessimismo: «come siamo arrivati a questa strana babelica confusione?». «Dov'è la nuova Pentecoste del Concilio Vaticano II, dal quale ci si aspettava un'abbondante messe e invece si è raccolto un vuoto sconcertante ben visibile nel progressivo e quasi inarrestabile movimento di scristianizzazione dell'occidente?». Senza essere catastrofisti o profeti di sventure, la parola d'ordine in mezzo a tanto smarrimento dovrebbe essere “unità”, mettendo da parte interessi di parte per evitare che la Chiesa di Cristo, l'unico Popolo di Dio si divida e si disgreghi in tante piccole-chiese. Perché quando un fiume si divide in tanti rivoli perde la sua travolgente forza ed energia! Con il sorgere dei nuovi movimenti nella Chiesa post conciliare, lo Spirito Santo ha fatto emergere una nuova generazione di cristiani, a cui la Chiesa guarda con grande speranza. Ovviamente non mancano le preoccupazione quando la comunione viene messa in crisi dall'eccesso di autoreferenzialità dei diversi gruppi ecclesiali. C'è Babele e confusione dei linguaggi nella Chiesa, quando gli stessi membri delle Comunità cristiane non riescono più a comprendersi; quando ci sono spaccature all'interno della Chiesa, tra schieramenti opposti. Da una parte, per esempio, le rivendicazioni dei cosiddetti “indignati ultra-progressisti”, che accusano la Gerarchia ecclesiastica di mantenere la Chiesa arroccata su posizioni difensive o di retroguardia su alcune tematiche concernenti la bioetica, la sessualità, il celibato, il sacerdozio alle donne, la comunione ai divorziati risposati, l’accoglienza degli omosessuali, il coinvolgimento dei laici nel governo pastorale delle parrocchie, il permesso ai laici di predicare, un maggior coinvolgimento del laicato nella scelta dei vescovi, una maggiore democrazia nella Chiesa, la possibilità della comunità di celebrare la messa senza il prete. In sintesi sono queste le richieste del movimento degli ultra-progressisti cattolici.
Dall'altra parte ci sono gli “indignati ultra-tradizionalisti”, i quali non solo si oppongono a tutte le rivendicazioni dei progressisti, considerate il frutto diabolico del “modernismo”, ma auspicano e pressano per un ritorno ai tempi gloriosi della Chiesa e possibilmente al potere temporale del Papa; e in certi casi arrivano a negare lo stesso Concilio Vaticano II. Il cardinale Prosper Grech, ai Grandi elettori, riuniti nel conclave del 2013 per eleggere il nuovo Papa, dettando la sua meditazione, ebbe a dire parole che si sono rivelate profetiche: “Non meno facile per il futuro pontefice sarà il compito di tenere l’unità nella Chiesa cattolica medesima. Tra estremisti ultratradizionalisti ed estremisti ultraprogressisti, tra sacerdoti ribelli all’obbedienza e quelli che non riconoscono i segni dei tempi, ci sarà sempre il pericolo di scismi minori che non soltanto danneggiano la Chiesa, ma che vanno contro la volontà di Dio: l’unità a ogni costo. Unità però, non significa uniformismo. È evidente che ciò non chiude le porte alla discussione intra-ecclesiale, presente in tutta la storia della Chiesa. Tutti sono liberi di esprimere i loro pensieri circa il compito della Chiesa, ma che siano proposte nella linea di quel «depositum fidei» che il pontefice insieme a tutti i vescovi hanno il compito di custodire”[2].
I nostalgici tradizionalisti dovrebbero convincersi che la Chiesa va avanti e avanza, anche se lentamente, sulle strade della storia verso il futuro escatologico. Indietro non si può e non si deve tornare! Si può essere fedeli alla Tradizione senza per questo essere tradizionalisti, cioè senza essere attaccati alle vecchie e obsolete strutture ecclesiastiche.
E i progressisti più radicali dovrebbero guardare con più fiducia l'immenso e ricco bagaglio di esperienza di fede che ci viene tramandato dalla bimillenaria storia della Chiesa, e guardare l'oggi della Chiesa con gli occhi della fede che vede all'opera lo Spirito Santo anche quando lo crediamo assente dalla vita della Comunità cristiana. Creando un neologismo, Papa Francesco definisce “alternativisti”, quanti entrano nella Chiesa con le loro idee e la loro ideologia, cercando sempre delle alternative al “sentire comune della Chiesa”[3]. Il Pontefice non decide le sue scelte seguendo le tendenze dell'opinione pubblica; nella Chiesa non si può ragionare in termini di maggioranza e di minoranza, e non si possono applicare ad essa criteri presi in prestito dalla politica o dalle democrazie moderne, perché altrimenti bisognerebbe riformulare un altro Vangelo e cancellare duemila anni di Tradizione ecclesiale. 




[1]     Papa Francesco, Udienza Generale in Piazza S. Pietro, del 22 maggio 2013.
[2]     Prospero Grech, Initium Conclavis, 12 Marzo 2013 in: AAS, Vol. CV, 5 Aprilis – 3 Maii, 2013,  n. 4-5,  p. 355.
[3]     Papa Francesco, Omelia della Messa nella Cappella della Casa di Santa Marta in Vaticano, 5 giugno 2014.


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