Ubi Petrus, ibi Ecclesia: "Dove c'è Pietro, lì c'è la Chiesa" (Sant'Ambrogio, Explanatio Psalmi XL, 30, 5)

mercoledì 27 giugno 2018

ESSERE CRISTIANO È UN CAMMINO DI LIBERAZIONE!


DIO MI PENSA!
Papa Francesco: «“Salvami, aiutami, liberami”. Questa è una bella preghiera al Signore»



di Antonino Legname

Nella Catechesi di Mercoledì 27 giugno 2018, papa Francesco ha ricordato che Dio prima di chiedere qualcosa al suo popolo dona sempre qualcosa: «Dio prima salva, poi chiede fiducia». Prima fa passare il popolo attraverso il Mar Rosso e lo salva, e poi sul monte Sinai chiede obbedienza alle sue leggi. Il Pontefice mette in evidenza il valore della gratitudine nella vita cristiana: anzitutto essere grati a Dio per i tanti suoi doni e benefici. Purtroppo, gli uomini a volte siamo avari di gratitudine. Come dice un proverbio: “finita la cena ci si dimentica del cucchiaio”. Perché spesso le nostre opere falliscono? Francesco risponde: «perché partiamo da noi stessi e non dalla gratitudine. E chi parte da sé stesso … arriva a sé stesso! È incapace di fare strada, torna su di sé. È proprio quell’atteggiamento egoistico che, scherzando, la gente dice: “Quella persona è un io, me con me, e per me”. Esce da se stesso e torna a sé». Questo è l’atteggiamento del narcisista, tutto concentrato su se stesso. Magari è attento a fare bene il proprio dovere. Ma qual è il fondamento di quel dovere? Il Vescovo di Roma risponde: «è l’amore di Dio Padre, che prima dà, poi comanda» e avverte: «Porre la legge prima della relazione non aiuta il cammino di fede». Questo spiega perché tanti giovani non vengono attratti dalla predicazione cristiana, specialmente quando parte «da obblighi, impegni, coerenze e non dalla liberazione». Francesco ribadisce che «essere cristiano è un cammino di liberazione!». E i comandamenti sono liberanti perché hanno origine dall’amore di Dio, che spezza le catene dell’egoismo, del peccato e spinge sempre ad andare avanti. Fa sempre bene – ha detto il Papa – esercitare la memoria, per ricordare le tante cose belle che Dio ha fatto nella nostra vita. Quante volte Dio ha dato ascolto al nostro grido di lamento e di aiuto: “Signore salvami, aiutami, liberami. Signore insegnami la strada, Signore accarezzami, Signore dammi un po’ di gioia”. Mai  devo dimenticare questa verità: «Dio pensa a me».

sabato 23 giugno 2018

FRANCESCO, IL PAPA «CALLEJERO»


IL FUTURO DELLA CHIESA È “SULLA STRADA”

Papa Francesco: «Senza l'incontro con il Popolo di Dio, la teologia può diventare ideologia»


di Antonino Legname

Intervistato di recente da Philip Pullella, giornalista dell’agenzia di stampa Reuters, Papa Francesco ha detto che «il futuro della Chiesa è "sulla strada"». Che cosa significa? Nel mio ultimo libro in due volumi, «La Teopsia di Francesco», ho dedicato un capitolo alla “teologia di strada”, che potrebbe aiutarci a capire meglio il significato e la prospettiva ecclesiologica delle parole del Pontefice.

“Gesù sempre è stato un uomo di strada”. I Vangeli, anche se con sfumature diverse, ci presentano lo stile di Gesù di Nazaret: «sempre in cammino», in mezzo alla gente; “la maggior parte del tempo lo passava per la strada. Questo vuol dire vicinanza alla gente, vicinanza ai problemi. Non si nascondeva”. E quando non era in strada, Gesù si raccoglieva in preghiera. Nell'intervista alla testata spagnola «El País», il 21 gennaio 2017, Papa Francesco ha detto che vuole continuare ad essere «callejero», nel senso che quando può gli piace, durante le udienze o i viaggi, uscire per la strada a salutare la gente: “Non posso fare tutto quello che voglio, ma lo spirito «callejero» c'è”. In un Tweet lanciato il 1° ottobre 2016, Francesco ha scritto: “Dio non si conosce con pensieri alti e tanto studio, ma con la piccolezza di un cuore umile e fiducioso”. Il Vescovo di Roma non vuole creare una nuova teologia, ma sta cercando di fare teologia in modo nuovo per approdare alla Teopsia, cioè alla «visione di Dio», attraverso la contemplazione del Volto incarnato e misericordioso di Gesù di Nazaret, che si rende visibile nel volto dei fratelli più «piccoli». Quella di Papa Francesco è una teologia «nuova» nei modi, nei mezzi e nel linguaggio: la sua non è una teologia astratta, elaborata nei laboratori di scienze religiose, ma concreta, in un certo senso una «teologia callejera», fatta nella strada e per la strada, cioè per la gente; una teologia che non usa solamente lo strumento della ragione, ma soprattutto mette in atto le virtù umane e tra queste, quelle della tenerezza e dell'umiltà; una teologia che non ha come fine di dimostrare apologeticamente l'esistenza di Dio, ma di mostrare il volto amorevole di Dio attraverso gli occhi misericordiosi di Gesù di Nazaret. Si tratta di una «teologia mistica incarnata nella storia» e che si fa storia “partendo dalla periferia, partendo da coloro che sono più lontani”. Ai teologi il Papa ha detto che è importante domandarsi: “a chi stiamo pensando quando facciamo teologia? Quali persone abbiamo davanti? Senza questo incontro con la famiglia, con il Popolo di Dio, la teologia corre il grande rischio di diventare ideologia”. Egli ricorda che “Gesù non è venuto ad insegnare una filosofia, un’ideologia … ma una «via», una strada da percorrere con Lui”.
Non si può annunciare Gesù Cristo senza mettersi in movimento, come faceva Paolo, l'Apostolo delle genti, il quale non resta “seduto davanti alla sua scrivania: no. Lui sempre, sempre è in moto. Sempre portando avanti l’annuncio di Gesù Cristo”. In diverse occasioni, Francesco ha detto che il compito dei Pastori della Chiesa è di uscire dal tempio per andare tra la gente. Se non si sta in mezzo alle gente e non si ascolta la vita della gente come si fa ad annunciare il Vangelo? Francesco evidenzia un pericolo: “quanto più ti allontani dalla gente e dai problemi della gente, tanto più ti rifugi in una teologia inquadrata del «si deve e non si deve», che non comunica nulla, che è vuota, astratta […]. A volte con le nostre parole rispondiamo a domande che nessuno si pone”. Commemorando a Bozzolo la bella figura di pastore di don Primo Mazzolari, Papa Francesco ribadisce che il pastore deve essere capace di mettersi davanti al popolo per indicare la strada, altre volte starà semplicemente in mezzo come segno di vicinanza, e in alcune circostanze camminerà dietro al popolo per incoraggiare chi è rimasto indietro.  E don Primo scriveva: «Dove vedo che il popolo slitta verso discese pericolose, mi metto dietro; dove occorre salire, m’attacco davanti. Molti non capiscono che è la stessa carità che mi muove nell’uno e nell’altro caso e che nessuno la può far meglio di un prete»”. Il Papa esorta a non fare della fede una “teoria astratta dove i dubbi si moltiplicano. Facciamo piuttosto della fede la nostra vita. Cerchiamo di praticarla nel servizio ai fratelli, specialmente dei più bisognosi”. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che “la nostra fede non è una dottrina astratta o una filosofia, ma è la relazione vitale e piena con una persona: Gesù Cristo”. Questa intima adesione a Cristo è stata l'esperienza dei santi Fondatori di Ordini e di Congregazioni religiose. In occasione del Giubileo della Vita Consacrata il Papa ha evidenziato che, purtroppo, è forte il rischio, anche nelle Comunità religiose, di “cristallizzare i carismi in una dottrina astratta: i carismi dei fondatori - ha detto - non sono da sigillare in bottiglia, non sono pezzi da museo”. Il Vescovo di Roma sottolinea il legame intimo tra Cristo e la Chiesa: “Nessuna manifestazione di Cristo, neanche la più mistica, può mai essere staccata dalla carne e dal sangue della Chiesa, dalla concretezza storica del Corpo di Cristo. Senza la Chiesa, Gesù Cristo finisce per ridursi a un’idea, a una morale, a un sentimento. Senza la Chiesa, il nostro rapporto con Cristo sarebbe in balia della nostra immaginazione, delle nostre interpretazioni, dei nostri umori”. Papa Francesco ha detto che “la Chiesa è il Vangelo, è l'opera di Gesù Cristo. Non è un cammino di idee, uno strumento per affermarle. E nella Chiesa le cose entrano nel tempo, quando il tempo è maturo, quando si soffre”. La Chiesa, popolo di Dio, ha nel mondo la missione di “comunicare agli uomini il disegno misericordioso di Dio”. 
Non possiamo dimenticare che il Popolo di Dio, costituito da tutti i battezzati,  «dai Vescovi fino agli ultimi Fedeli laici», è «infallibile nel credere» e, possiede un “proprio «fiuto» per discernere le nuove strade che il Signore dischiude alla Chiesa”. Dobbiamo convincerci che “il sensus fidei del santo popolo fedele di Dio, mai, nella sua unità, mai sbaglia”. Questo sensus fidei del popolo credente è un vero e proprio «luogo teologico». Papa Francesco spiega con convinzione che la parola «popolo» non è una categoria logica, ma è una categoria mistica,  ma non nel senso di «angelicata», come se tutto quello che fa il popolo fosse buono; e allora per evitare equivoci, Francesco preferisce identificare la parola «popolo» con la categoria «mitica» e storica. “Il popolo si fa in un processo, con l’impegno in vista di un obiettivo o un progetto comune. La storia è costruita da questo processo di generazioni che si succedono dentro un popolo. Ci vuole un mito per capire il popolo”. E allora, occorre ascoltare di più la saggezza del Popolo di Dio, imparando a valorizzare la pietà popolare della nostra gente che possiede la capacità di comprendere il Vangelo; questo è il sensus fidei fidelium, cioè il carisma di ogni cristiano di accedere e di arricchire il deposito della fede. Ai Vescovi italiani, il Papa ha ricordato che “il pastore è convertito e confermato dalla fede semplice del popolo santo di Dio, con il quale opera e nel cui cuore vive. Questa appartenenza è il sale della vita del presbitero; fa sì che il suo tratto distintivo sia la comunione, vissuta con i laici in rapporti che sanno valorizzare la partecipazione di ciascuno”. Pertanto, tutti gli organismi di comunione e di partecipazione nella Chiesa devono rimanere connessi col «basso», cioè devono partire dalla gente, dai problemi di ogni giorno. Francesco ha esortato i Vescovi del Messico a “curare specialmente la formazione e la preparazione dei laici, superando ogni forma di clericalismo e coinvolgendoli attivamente nella missione della Chiesa”. Non si tratta di una benevola «delega» che la gerarchia concede ai laici ma di una naturale partecipazione di tutto il Popolo di Dio alla missione salvifica della Chiesa. E anche sul ruolo delle donne nella Chiesa, Francesco ha detto con parole chiare: “per favore, non possono essere ridotte a serve del nostro recalcitrante clericalismo; esse sono, invece, protagoniste nella Chiesa”.



[Dal libro di Antonino Legname, La Teopsia di      Francesco. Tra scienza e fede, il nuovo umanesimo   cristiano,integrale, popolare, solidale, inclusivo e gioioso, Le Nove Muse, Catania 2017, vol. I, pp. 118-121].   



giovedì 21 giugno 2018

LA STRADA DEL PERDONO NON È FACILE


È DIFFICILE “INGOIARE IL ROSPO”
Francesco: ««A volte è difficile anche perdonare la suocera»






di Antonino Legname

«La preghiera “mafiosa” è: “Me la pagherai”», la preghiera cristiana è: «Signore, dagli la tua benedizione e insegnami ad amarlo». Il Signore Gesù ci chiede ciò che Lui stesso ha messo in pratica: «perdonare coloro che cercano di distruggerci». Con quelle parole gridate sulla croce - «Padre perdonali», non solo perdona i suoi nemici, ma anche li giustifica: «perché non sanno quello che fanno». Non è facile perdonare – ha ammesso il Papa nell’Omelia della Messa a Santa Marta, il 19 giugno 2018. E confida che, mentre pregava e meditava il testo del Vangelo di Matteo (5,43-48), in preparazione alla meditazione della messa mattutina, non trovava la strada per la fare la predica e pensava: «Ma Gesù ha idee che noi non possiamo capire e non possiamo ricevere». Ma come si fa a perdonare i nemici e ancor di più a pregare per coloro che «vogliono distruggermi», affinché Dio li benedica? «Questo è veramente difficile da capire» - ha ammesso il Papa. È vero che nella preghiera del Padre Nostro chiediamo perdono a Dio come noi perdoniamo coloro che ci hanno fatto del male, ma non è una condizione facile – ha ribadito. E a volte capita che, con un po' di difficoltà, «ingoiamo il rospo e andiamo avanti». Ma ci sono situazioni in cui sembra impossibile perdonare: per esempio – ha ricordato Francesco - «Pensiamo al secolo scorso, i poveri cristiani russi che per il solo fatto di essere cristiani erano mandati in Siberia a morire di freddo: e loro dovevano pregare per il governante boia che li mandava lì? Ma come mai? E tanti lo hanno fatto: hanno pregato». E ancora: «Pensiamo a Auschwitz e ad altri campi di concentramento: loro dovevano pregare per questo dittatore che voleva la razza pura e ammazzava senza scrupolo, e pregare perché Dio li benedicesse, a tutti questi! E tanti lo hanno fatto». Non c’è dubbio che perdonare sia difficile, anzi a volte difficilissimo, ma non impossibile, con l’aiuto di Dio. Senza arrivare a situazioni limite di persecuzione cruenta: «Nelle famiglie è tanto difficile, a volte, perdonarsi». Genitori che non riescono a perdonare i figli e figli che non riescono a perdonare i genitori o gli altri fratelli. E a volte – ammette il Papa - è difficile anche «perdonare la suocera». 
Dobbiamo imparare a perdonarci gli uni gli altri perché siamo tutti figli del Padre celeste e il suo amore è universale: «fa uscire il sole per i buoni e per i cattivi». Infine, Il vescovo di Roma offre a tutti un consiglio pratico: «Ci farà bene, oggi, pensare a un nemico — credo che tutti noi ne abbiamo qualcuno — uno che ci ha fatto del male o che ci vuole fare del male o che cerca di fare del male». Dopodiché «preghiamo per lui. Chiediamo al Signore di darci la grazia di amarlo».

lunedì 18 giugno 2018

TESTO INTEGRALE DELL'INTERVENTO DI S.E. MONS. CORRADO LOREFICE AL 1° CORSO DI AGGIORNAMENTO PER GLI OPERATORI DEL DIRITTO CANONICO NEI TRIBUNALI ECCLESIASTICI (ENNA - 15 GIUGNO 2018)


ALCUNI ASPETTI DEL "MUNUS" GIUDIZIARIO NEI TRIBUNALI ECCLESIASTICI PER LE CAUSE DI NULLITA' MATRIMOMIALE




Con gioia prendo parte a questo Corso di aggiornamento per gli Operatori del Tribunale Ecclesiastico Siculo. Saluto cordialmente e con affetto tutti i Ministri e gli Operatori del Tribunale Interdiocesano e dei Tribunali Diocesani della Sicilia. Vi sono molto grato per la costante e operosa collaborazione che prestate a noi Vescovi nell’assolvere, con qualificata professionalità e dedizione, al munus giudiziario. Un sentito ringraziamento ai Relatori per aver accettato con generosa prontezza l’invito a partecipare a questo Corso di aggiornamento; grazie per il dono della vostra competenza, esperienza e professionalità.
Oltre al piacere di incontrarVi con fraterna cordialità, desidero offrirVi alcune essenziali riflessioni su qualche aspetto della potestà giudiziaria nella Chiesa, che è anzitutto servizio di carità. È un concetto che già ho espresso all’inizio dell’attività del Tribunale Interdiocesano Siculo (30 novembre 2017). Mi piace citare l’esortazione di San Bernardo di Chiaravalle a Papa Eugenio III e ripresa da Paolo VI nel Discorso alla Sacra Romana Rota del 27 gennaio 1969: “Il tuo cuore è come una fontana pubblica, dove tutti hanno diritto di bere” [De cons., I, V]; e tale, carissimi, deve essere anche il Vostro servizio verso tutti coloro che si rivolgono ai nostri Tribunali per avere giustizia. Il Vostro è un servizio pastorale di verità, di giustizia, di umano discernimento e di cristiana prudenza. Pertanto, il primo sentimento, dopo quello della profonda gratitudine a Dio, è di vivo compiacimento per il Vostro delicato lavoro, portato avanti con diligente impegno e con retta professionalità.
In questa società post-secolarizzata, è sotto gli occhi di tutti il mancato ascolto della coscienza morale; la coscienza esiste ancora, non è vero che non c’è coscienza, forse non si ascolta; ma la coscienza non si spegne, perché altrimenti si spegnerebbe l’identità stessa della persona. Da qui si spiega l’atteggiamento superficiale e a volte anche sfrontato nei confronti del matrimonio cristiano, sacramento dell’amore che lega Cristo alla sua Chiesa, sua Sposa, fino all’effusione del sangue. La gioia inesauribile del matrimonio, nell’ottica della fede, dipende molto dalla libera cooperazione dei coniugi con la grazia di Dio, dalla loro risposta al Suo disegno d’amore. È quanto mai urgente promuovere e intensificare tutte quelle iniziative di pastorale familiare, per offrire ai fidanzati e ai giovani sposi la necessaria formazione umana e spirituale per la pienezza santificante dell’amore e per la stabilità della famiglia. Le parole di papa Francesco alla Rota Romana, il 22 gennaio 2016, sollecitano l’impegno della Chiesa ad un rinnovato senso di responsabilità per continuare «a proporre il matrimonio, nei suoi elementi essenziali – prole, bene dei coniugi, unità, indissolubilità, sacramentalità – non come un ideale per pochi, nonostante i moderni modelli centrati sull’effimero e sul transitorio, ma come una realtà che, nella grazia di Cristo, può essere vissuta da tutti i fedeli battezzati. E perciò, a maggior ragione, l’urgenza pastorale, che coinvolge tutte le strutture della Chiesa, spinge a convergere verso un comune intento ordinato alla preparazione adeguata al matrimonio, in una sorta di nuovo catecumenato – sottolineo questo: in una sorta di nuovo catecumenato». Purtroppo, assistiamo, quasi impotenti, al disfacimento di tante famiglie. Tanti matrimoni naufragano, anche dopo pochi anni di vita coniugale, e a volte dopo pochi mesi. È un dato di fatto l’aumento dei casi di matrimoni celebrati con superficialità, immaturità o incapacità ad assumere gli impegni del matrimonio per problemi di natura psichica o psichiatrica. A tal proposito, è prezioso e in un certo senso indispensabile, per la trattazione delle cause di nullità di matrimonio che riguardano le limitazioni previste dal can. 1095, l’aiuto di esperti in tali discipline umane. Nella tavola rotonda, che si è svolta ieri pomeriggio, so che avete affrontato con arguzia, approfondito e dibattuto alcuni argomenti attinenti al tema. I Periti sono chiamati ad intervenire nel processo, secondo la propria specifica competenza, per offrire al Giudice, al Difensore del Vincolo e al Patrono delle parti, elementi di valutazione sulla natura e il grado dei problemi psichici che hanno inficiato il consenso matrimoniale e la capacità della persona ad assumere gli obblighi del matrimonio. Se i periti, psichiatri o psicologi, hanno una visione antropologica cristiana, sarà più facile il dialogo costruttivo con il Giudice ecclesiastico, il quale non si lascerà suggestionare da quelle argomentazioni che, invece, provengono da prospettive antropologiche divergenti con la Rivelazione biblica. In ogni caso, la valutazione ultima sulla nullità o meno del matrimonio spetta unicamente al Giudice, il quale non si dovrà sentire vincolato da eventuali giudizi espressi dal Perito. Sono venuto a sapere che oggi, con molta facilità, si invoca il can. 1095, specialmente i numeri 2 e 3: «sono incapaci a contrarre matrimonio: 2° coloro che difettano gravemente di discrezione di giudizio circa i diritti e i doveri matrimoniali essenziali da dare e accettare reciprocamente; 3° coloro che per cause di natura psichica, non possono assumere gli obblighi essenziali del matrimonio». Ritengo che non basti individuare lievi psicopatologie o piccole deficienze di ordine morale, per avviare un procedimento canonico di nullità, cercando di provare in tutti i modi, e a volte con forzature esagerate, la mancanza di discrezione di giudizio o l’incapacità della parte o delle parti ad assumere gli obblighi essenziali della vita coniugale. Mi sembra utile evidenziare la distinzione tra «difficoltà» e «incapacità» a prestare il consenso matrimoniale. È l’«incapacità», a realizzare una vera comunità di vita e di amore, che rende nullo un matrimonio [Cfr. Giovanni Paolo II, Discorso alla Rota Romana, 5 febbraio 1987].

Al nostro Foro ecclesiastico arrivano le richieste più diversificate per la verifica della nullità del matrimonio e voi, Ministri del Tribunale, - che bello questo termine “Ministri” con tutto quello che significa e che porta con sé questa parola! - siete coloro che dovete dirigere ogni vostra fatica ad accertare, con competenza giuridica e antropologica, la verità sulla validità o meno del matrimonio e a ristabilire la giustizia, tutelando la coscienza delle persone. Siete chiamati a svolgere la Vostra funzione con un grande senso di umiltà, con senso del dovere e della responsabilità, con discrezione e con la necessaria misericordia, pur nella doverosa applicazione imparziale della legge canonica e del responsabile discernimento dei casi concreti. Non dovete mai dimenticare che dietro le carte ci sono le persone che patiscono per il loro matrimonio naufragato. Permettetemi di dire che, quello che maggiormente deve emergere nella Vostra missione, è la caritas christiana, che valorizza ancor di più e rende più proficua l’aequitas dei giudizi. Nella vostra azione di Ministri del Tribunale non deve mai mancare il tratto pastorale, lo spirito di carità e di comprensione verso le persone che soffrono per il fallimento della loro vita coniugale. Per stabilire questo stile pastorale occorre evitare il giuridicismo, cioè la legge per la legge. La legge e il giudizio sono sempre a servizio della verità, della giustizia e della virtù evangelica della carità. Questo significa che il ministero del Giudice ecclesiastico e degli altri Ministri del Tribunale è essenzialmente pastorale perché finalizzato ad aiutare i membri del Popolo di Dio, segnati dalla fragilità umana. Non penso di esagerare nel dire che il Giudice ecclesiastico, nell’ambito della giustizia della Chiesa, è il buon Pastore che ha il carisma di consolare chi soffre per il matrimonio fallito, di riconoscere i diritti di chi è stato vittima, oppure calunniato e ingiustamente umiliato. In altre parole, l’autorità giudiziaria nella Chiesa è un’autorità di servizio, che consiste nell’esercizio del munus affidato da Cristo alla sua Chiesa per il bene delle anime, per la salus animarum, che è la legge suprema della Chiesa.
Vorrei richiamare, inoltre, la Vostra attenzione su eventuali pericoli che possono inquinare  e insidiare il servizio che svolgete in nome della Chiesa: nella vostra azione giudiziale mai deve esserci la minima ombra di ingiustizia o di parzialità. Purtroppo, siamo ben consapevoli che nell’amministrazione della giustizia a volte si possono verificare delle ingiustizie, che sono assai nocive alla vita e al buon nome del Tribunale. Per esempio, già durante la preparazione del processo, quando vengono presentate cause di nullità matrimoniale alterate nella loro realtà giuridica, con motivazioni infondate, con prove costruite o inconcludenti, con testimoni subornati, o peggio con documenti contraffatti o manipolati. Non sarà mai troppa la prudenza, di voi Giudici e Difensori del Vincolo, specialmente nella delicata fase istruttoria, per evitare con accortezza ogni forma di ingiustizia e di alterazione della verità processuale. Bisogna avere il coraggio di ricordare alle Parti in causa e anche ai Testimoni che non si può ingannare il Giudice divino, mistificando la verità oggettiva, inerente alla realtà dei fatti. Pertanto, vi esorto ad evitare due rischi: da una parte il lassismo giuridico, che può illudere le parti, facendo sostenere spese inutili e provocando danni anche a livello psicologico e spirituale; e dall’altra, l’eccessivo rigorismo, che può portare ad una mancanza di fiducia nei confronti dei ricorrenti, col pericolo di ostacolare il procedimento canonico e di impedire la soluzione di situazioni dolorose. 
So – e di questo Vi ringrazio – che, nonostante i tanti impegni pastorali e professionali, fate di tutto per portare avanti le cause che vi vengono affidate; mi permetto, anche in questa circostanza, di sollecitarvi a concludere tutte le cause pendenti ereditate dal TERS (Tribunale Ecclesiastico Regionale Siculo). Per quanto riguarda le nuove cause introdotte e già a Voi affidate, mi sembra opportuno spendere qualche parola sulla «celerità» dei processi, così tanto auspicata dal Motu proprio Mitis Iudex Dominus Iesus. Nello studio, nella trattazione e nella definizione delle cause, evitate essenzialmente questi due pericoli: la «fretta», a discapito del sereno e approfondito esame della causa, e la «lentezza» eccessiva, che priva le parti interessate di risposte tempestive e risolutive dei loro problemi. Una giustizia più rapida non deve mai nuocere alla serenità dell’ordine giuridico che deve guidare e portare il Giudice ad acquisire la certezza morale. In ogni caso, non si deve assolutamente contrapporre la dimensione pastorale con la dimensione giuridica. Ovviamente, è fuorviante pensare che, per essere più pastorale, il diritto debba essere meno giuridico. Non si deve peccare di legalismo fino al punto da «chiudere la salvezza delle persone dentro le strettoie del giuridicismo» - così papa Francesco nel Discorso in occasione della inaugurazione dell’Anno giudiziario della Rota Romana, il 3 gennaio 2015. È volontà del Santo Padre che si attui una vera e propria «conversione pastorale» delle strutture ecclesiastiche, anche dei Tribunali. Ben venga, pertanto, una certa elasticità nell’amministrazione del diritto, che lo stesso diritto permette per ragioni pastorali, ma sempre nel rispetto della legge canonica e delle  esigenze della giustizia. Mi sembra di poter dire serenamente che, quando la giustizia nella Chiesa è animata dalla carità, è alimentata dalla misericordia ed è addolcita e mitigata dall’equità, è sempre pastorale. Carità pastorale e giustizia pastorale, dunque, vanno sempre coniugate insieme.
Una parola vorrei rivolgere agli Avvocati e ai Procuratori. È sacrosanto il diritto di difesa delle parti. Sarebbe una grave ingiustizia se fosse negato un tale diritto! Anche per Voi, però, la coscienza morale deve essere l’orientamento costante e normativo della vostra attività giudiziaria a servizio delle persone che a Voi si rivolgono. Il Vostro dovere morale e professionale è anzitutto la ricerca della verità, senza scherzare con la verità e senza mistificarla con forzature. Voi, in genere, siete i primi a sentire il racconto delle parti, la biografia di volti concreti, a incontrare la loro carne ferita,  pertanto, prima di ogni altro, Voi potete consigliare le parti, con chiarezza e onestà, se inoltrare la causa, oppure sconsigliarla per mancanza del cosiddetto fumus boni iuris. E nel cercare le prove, nel determinare il capo di nullità e nel confutare gli argomenti contrari, il vostro unico scopo deve essere l’accertamento della verità dei fatti, e il trionfo della giustizia. Per favore, - noi Pastori ascoltiamo molte pecorelle a Noi affidate – per favore, se vi rendete conto che quella determinata causa, che state esaminando, è infondata, dovete rifiutare di patrocinarla e di portarla avanti ad ogni costo, magari costruendo artificiosamente il processo, ricorrendo anche a mezzi sleali e a volte poco corretti. Paolo VI paragonò il “processo” canonico a un «binario di scorrimento, il cui asse è precisamente la ricerca della verità oggettiva e il cui punto terminale è la retta amministrazione della giustizia» [Discorso alla Rota Romana, 28 gennaio 1978]. Mi sembra un’immagine molto bella ed appropriata per far comprendere che il diritto nella Chiesa non è puro formalismo, ma è finalizzato a realizzare il bene supremo della legge della Chiesa, che è la “salvezza delle anime”. Tutti gli Operatori del Tribunale, sono chiamati – ciascuno secondo la propria specifica competenza - a camminare dentro questo binario del diritto processuale canonico per favorire il bene umano e spirituale delle persone che chiedono giustizia. Benedetto XVI, nel Discorso alla Rota Romana, il 28 gennaio 2006, ebbe a dire che «il processo canonico di nullità del matrimonio costituisce essenzialmente uno strumento per accertare la verità sul vincolo coniugale. Il suo scopo costitutivo non è quindi di complicare inutilmente la vita ai fedeli né tanto meno di esacerbarne la litigiosità, ma solo di rendere un servizio alla verità».
Infine, vorrei dedicare un accenno alla questione della «gratuità» delle procedure nelle cause di nullità matrimoniale, così tanto auspicata da papa Francesco, «salva la giusta e dignitosa retribuzione agli operatori dei tribunali». È un tasto molto delicato e in certi casi dolente, anche perché ci rendiamo conto delle tante difficoltà economiche a mantenere e a rendere sempre più funzionale ed efficiente la struttura dei nostri Tribunali. Il Santo Padre ha detto chiaramente e giustamente che non si devono mescolare gli affari economici con la verifica della validità di un sacramento, «e bisogna essere attenti che le procedure non siano entro la cornice degli affari […]. Quando sono attaccati l’interesse spirituale all’economico, questo non è di Dio […]. Questo punto è importante: staccare le due cose” [Papa Francesco, Saluto ai partecipanti al corso “super rato” promosso dal Tribunale della Rota Romana, 5 novembre 2014].
Sotto questo profilo, già da tempo, i nostri Tribunali, applicando le norme del Codice di Diritto Canonico, hanno messo a disposizione, in modo del tutto gratuito, la figura del Patrono Stabile che offre innanzitutto consulenza e, dove è possibile, il patrocinio totalmente gratis della causa. A questo si aggiunge l’Istituto del gratuito o semi-gratuito patrocinio per quanti versano in situazioni economiche disagiate. Ovviamente, non si può pretendere dagli Avvocati e dai Procuratori, che sono liberi professionisti e quasi tutti con famiglia a carico, di patrocinare gratuitamente le cause; sarebbe una palese ingiustizia e un mancato riconoscimento della loro professionalità. D’altra parte, gli Avvocati a turno venite chiamati a patrocinare gratuitamente le cause delle persone meno abbienti e per questo servizio offrite generosamente la vostra opera professionale, accettando un semplice rimborso per le spese vive. Grazie per questa Vostra disponibilità! Non facciamoci contagiare dall’avidità e dalla sclerocardia imperanti. «Sclerocardia»: questa dizione la usa Gesù nei Vangeli quando gli pongono la questione del divorzio; è per la vostra «sclerocardia»! Quello che in generale mi permetto raccomandare è la moderazione nella richiesta dell’onorario; permettetemi di dire: «voi non siete semplici avvocati», Voi siete «Ministri», servitori; non può prevalere la brama che è tipica dei cuori induriti e bramosi dei nostri tempi. È già una contraddizione in sé la percezione dell’avidità del denaro, soprattutto per chi viene già con una ferita sulla sua carne. A maggior ragione di questi tempi. Dunque, la moderazione nella richiesta dell’onorario che deve mantenersi concretamente e non solo formalmente dentro i limiti previsti dalle tabelle approvate dalla CEI. La richiesta esagerata e immotivata di compenso getta discredito sulla credibilità della Chiesa – e noi oggi abbiamo tanti motivi di discredito della Chiesa cattolica, ce ne sono già abbastanza e non ne possiamo aggiungere altri - infanga il buon nome del Tribunale e alimenta nell’opinione pubblica la «diceria» che, solo chi ha soldi e paga bene un avvocato, ottiene la nullità del matrimonio. Non dovete mai perdere di vista – come Vi esortavo nel nostro primo incontro in occasione dell’inizio dell’attività del T.E.I.S. - che il Vostro lavoro si collega e si svolge dentro un contesto ecclesiale di servizio alle persone che soffrono per la fine del loro matrimonio e per questo si possono trovare in una situazione già di fragilità psicologica.
A conclusione di questo mio intervento, desidero esortare tutti Voi, Ministri e Operatori dei Tribunali Ecclesiastici della nostra Isola, a continuare a collaborare, cordialmente e generosamente, con  la potestà giudiziaria di Noi Vescovi, facendo tesoro di tutte le novità giuridiche e procedurali apportate dal Motu proprio di papa Francesco, specialmente di tutte quelle semplificazioni introdotte nella trattazione delle cause di nullità matrimoniale per rendere tale esercizio più agevole e più pastorale, senza pregiudicare i criteri di verità e di giustizia, ai quali un processo deve necessariamente attenersi.
Personalmente, desidero continuare a seguire con particolare interesse l’opera preziosa e delicata che svolgete nel nostro Tribunale. Non dubito che continuerete il Vostro servizio ecclesiale con coscienza, con senso di alta responsabilità e con dedizione, a difesa della giustizia e per l’applicazione della verità nella carità. La Vostra è una missione importante nella Chiesa perché, con il Vostro impegno qualificato, potrete apportare pace e conforto a tante persone che hanno sofferto per il loro matrimonio fallito. A tutti Voi, carissimi Ministri e Operatori dei Tribunali Ecclesiastici di Sicilia, e in particolare al carissimo Mons. Antonino Legname, rinnovo – anche a nome dei miei Confratelli Vescovi - la mia viva gratitudine e il mio sincero apprezzamento, con l’assicurazione della mia preghiera; affido quest’intenzione all’intercessione di Maria Santissima, Speculum iustitiae, e chiedo al Signore che vi accompagni sempre col suo aiuto. Vi siano di sostegno anche il mio incoraggiamento e la mia stima. Grazie.

LA DIMENSIONE PASTORALE DEL DIRITTO CANONICO NEI TRIBUNALI ECCLESIASTICI


AUMENTANO LE NULLITA’ DEL MATRIMONIO PER PROBLEMI DI NATURA PSICHICA

L’arcivescovo Lorefice: «Occorre promuovere e intensificare tutte quelle iniziative di formazione umana e spirituale per la stabilità della famiglia». 




 di Antonino Legname 

L’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice è intervenuto, in qualità di Moderatore del Tribunale Interdiocesano Siculo, al Corso di aggiornamento per gli Operatori del Diritto canonico dei Tribunali Ecclesiastici della Sicilia, che si è svolto a Enna dal 14 al 16 giugno. Il Presule ha offerto agli Operatori del Tribunale Siculo alcune riflessioni su diversi aspetti della potestà giudiziaria nella Chiesa, che «è anzitutto servizio di carità», e - citando l’esortazione di San Bernardo di Chiaravalle a Papa Eugenio III: “Il tuo cuore è come una fontana pubblica, dove tutti hanno diritto di bere” – ha detto che tale deve essere il servizio verso tutti coloro che si rivolgono al Foro ecclesiastico per avere giustizia. «Il Vostro è un servizio pastorale di verità, di giustizia, di cristiana prudenza» – ha rimarcato l’Arcivescovo – ricordando che oggi viviamo in una società post-secolarizzata nella quale è diminuita «la sensibilità della coscienza morale; da qui si spiega l’atteggiamento superficiale e a volte anche sfrontato nei confronti del matrimonio cristiano». Non c’è dubbio che «la gioia inesauribile del matrimonio, nell’ottica della fede, dipende molto dalla libera cooperazione dei coniugi con la grazia di Dio, dalla loro risposta al Suo disegno d’amore». Mons. Lorefice ha detto che è urgente «promuovere e intensificare tutte quelle iniziative di pastorale familiare, per offrire ai fidanzati e ai giovani sposi la necessaria formazione umana e spirituale per la pienezza santificante dell’amore e per la stabilità della famiglia». La Chiesa oggi non deve avere paura di proporre con chiarezza il matrimonio  nei suoi elementi essenziali, che sono: i figli, il bene dei coniugi, l’unità, l’indissolubilità e la sacramentalità. «Questo non è un ideale per pochi – ha rimarcato il Moderatore – ma è una realtà che può essere vissuta da tutti i fedeli battezzati». Purtroppo, non possiamo negare che oggi «tanti matrimoni naufragano, anche dopo pochi anni di vita coniugale, e a volte anche dopo pochi mesi. È un dato di fatto – ha lamentato Lorefice - l’aumento dei casi di matrimoni celebrati con superficialità, immaturità o incapacità ad assumere gli impegni del matrimonio per problemi di natura psichica o psichiatrica». Questo particolare argomento è stato affrontato e dibattuto nel Corso di aggiornamento. Si è, infatti, preso atto che vanno aumentando i casi di nullità per problemi psichici che inficiano alla radice il consenso matrimoniale e la capacità della persona ad assumere gli obblighi della vita coniugale. Al Foro Ecclesiastico arrivano le richieste più diversificate per la verifica della nullità del matrimonio, e i Ministri del Tribunale – ha esortato il Moderatore – mai devono dimenticare che «dietro le carte ci sono le persone che patiscono per il loro matrimonio naufragato». Per questo motivo occorre molta sensibilità, comprensione e spirito pastorale verso le persone che soffrono per il fallimento della loro vita coniugale. Per stabilire questo stile – ha consigliato Lorefice - bisogna «evitare il giuridicismo, cioè la legge per la legge. La legge e il giudizio sono sempre a servizio della verità, della giustizia e della virtù evangelica della carità» e hanno come fine supremo la «salvezza delle anime». Inoltre, ci vuole tanta attenzione e prudenza per evitare di inquinare il servizio che si svolge in nome della Chiesa: «nella vostra azione giudiziale mai deve esserci la minima ombra di ingiustizia o di parzialità» - ha detto Lorefice ai Giudici – esortandoli ad evitare due rischi: «da una parte il lassismo giuridico, che può illudere le parti, facendo sostenere spese inutili e provocando danni anche a livello psicologico e spirituale; e dall’altra, l’eccessivo rigorismo, che può portare ad una mancanza di fiducia nei confronti dei ricorrenti, col pericolo di ostacolare il procedimento canonico e di impedire la soluzione di situazioni dolorose». Inoltre, nello studio, nella trattazione e nella definizione delle cause, si devono evitare due pericoli – ha messo in guardia il Moderatore - la «fretta», a discapito del sereno e approfondito esame della causa, e la «lentezza» eccessiva, che priva le parti interessate di risposte tempestive e risolutive dei loro problemi. È vero che papa Francesco auspica una giustizia più celere, ma la velocità dei processi – ha precisato Lorefice - «non deve mai nuocere alla serenità dell’ordine giuridico che deve guidare e portare il Giudice ad acquisire la certezza morale». Ovviamente non bisogna cadere nel legalismo fino al punto da «chiudere la salvezza delle persone dentro le strettoie del giuridicismo». E rivolgendosi agli Avvocati e ai Procuratori, Lorefice ha ricordato che il loro «dovere morale e professionale è anzitutto la ricerca della verità, senza scherzare con la verità e senza mistificarla con forzature». Inoltre, ha voluto toccare un tasto delicato e in certi casi dolente, cioè la questione della «gratuità» delle procedure nelle cause di nullità matrimoniale, così tanto auspicata da papa Francesco, «salva la giusta e dignitosa retribuzione degli operatori dei tribunali». Poi ha elogiato gli Avvocati che a turno vengono chiamati dal Vicario Giudiziale del Tribunale Interdiocesano Siculo, Mons. Antonino Legname, a patrocinare gratuitamente le cause delle persone meno abbienti, e nello stesso tempo ha raccomandato loro la moderazione nella richiesta dell’onorario quando vengono scelti dalle parti come Patroni di fiducia. Infatti, il compenso agli Avvocati deve mantenersi dentro i limiti previsti dalle tabelle stabilite dalla Conferenza Episcopale Italiana (vedi nel sito: tribunaleinterdiocesanosiculo). «La richiesta esagerata e immotivata di compenso – ha detto Lorefice con tono volutamente sostenuto - getta discredito sulla credibilità della Chiesa, infanga il buon nome del Tribunale e alimenta nell’opinione pubblica la “diceria” che, solo chi ha soldi e paga bene un avvocato, ottiene la nullità del matrimonio». E ha concluso: «Non dovete mai perdere di vista che il Vostro lavoro si colloca e si svolge dentro un contesto ecclesiale di servizio alle persone che soffrono per la fine del loro matrimonio e per questo si possono trovare in una situazione di fragilità psicologica».

mercoledì 13 giugno 2018

LA SANTITA' ANONIMA DI TUTTI I GIORNI

CRISTIANI A TEMPO PIENO
Francesco: «La testimonianza del cristiano è “24 ore su 24”, perché inizia al mattino quando mi alzo fino alla sera quando vado a letto»


   
di Antonino Legname


Quando si parla di santità è facile pensare immediatamente ai Santi canonizzati dalla Chiesa e con l’aureola in testa. Papa Francesco sta facendo di tutto per aiutarci a comprendere meglio che la santità non è prerogativa di alcuni fortunati e privilegiati nella Chiesa, ma è vocazione di tutti i battezzati e di tutti gli uomini di buona volontà, che sanno essere nella quotidianità sale e luce per gli altri, senza suonare le campane e senza accendere i riflettori. «Questa è la santità di tutti i giorni – ha detto Francesco nella Meditazione della Messa a Santa Marta, il 12 giugno 2018. La testimonianza del cristiano è “24 ore su 24”, perché «inizia al mattino quando mi alzo fino alla sera quando vado a letto». Sappiamo che il Mahatma Gandhi aveva un grandissimo rispetto per Gesù di Nazareth e lo dichiarava apertamente. Un giorno quando gli chiesero perché non si fosse fatto cristiano rispose: “Anch’io sarei cristiano, se i cristiani lo fossero 24 ore al giorno”. Bisogna essere cristiani a tempo pieno. 

Non c’è dubbio che la testimonianza più grande per un cristiano è dare la vita, con il martirio; ma non è da sottovalutare la testimonianza quotidiana, quella che si snoda regolarmente durante tutto l’arco della giornata. Tutto ciò che di ordinario facciamo ogni giorno, se lo facciamo bene e per il bene degli altri diventa straordinario. Fare tutto con umiltà, senza cercare il plauso umano, rende le nostre opere bene accette a Dio. Mi piace paragonare l’umiltà al filo che tiene unite tutte le perle – che sono le nostre buone opere – se il filo si spezza, tutte le perle si disperdono. Il Pontefice esorta a non essere protagonisti dei nostri meriti. Senza l’umiltà anche le opere più meritorie perdono valore agli occhi di Dio. Con molta naturalezza e umiltà bisogna essere «sale» e «luce» per gli altri – ha ribadito il Papa - Un pizzico di sale condisce e dà gusto ai cibi; il sale «non insaporisce se stesso», e la luce non serve per illuminare se stessa, ma per aiutare gli altri a stare meglio, specialmente nelle ore più buie. «Sembra poca cosa» ma il Signore – ci assicura il Papa - «con poche cose nostre fa dei miracoli, fa delle meraviglie».

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Sfogliando casualmente un mio vecchio quaderno del 1975, ho trovato questa bella preghiera sulla santità - tratta dal diario di un prete - che all'età di 15 anni, quando ancora ero nel Seminario minore di Nicosia, avevo trascritto a mano, perché mi aveva particolarmente colpito per la sua semplicità e per la profondità spirituale.


Signore, vorrei … !                                  
              
Signore, vorrei,

- te lo ripeto ancora una volta -

vorrei essere santo!

Vorrei essere santo, o Signore!

Ma non per essere portato in giro

a suon di tamburi e di grancassa.

Non mi piace la banda

e lo scoppiettare dei mortaretti mi urta.

Vorrei essere santo, Signore!

Ma non per essere affumicato

da candele, lumi e ceri

e odorar di incenso.

Ma vorrei essere santo

per farti compagnia nelle chiese di città

e nelle capanne di missione.

Vorrei essere sempre con Te, vicino a Te,

cuore a cuore,

e nella solitudine della Tua dimora,                

starmene lì, immobile,

estasiato dall’amore.

Vorrei essere santo, Signore,

come Pietro, Paolo, Saverio,

e di contrada in contrada,

di regione in regione

predicare la Tua Parola,

insegnare a tutti la Via, la Verità e la Vita.

Vorrei ancora essere santo, Signore,

per darti prova del mio amore

come Lorenzo, Agnese, Cecilia.

Se è vero che non c’è amore più grande

di colui che dà la vita per l’amico che ama,

dona anche a me la corona del martirio.

Allora

con la palma tra le mani,

nella porpora del mio sangue

canterò per sempre l’inno dell’Amore.

Ecco la brama del mio cuore:

essere santo, apostolo e martire,

Signore!

[Preghiera tratta dal libro di Luciano Campion, L’amore nel diario di un prete, Marietti, Torino 1968]


martedì 12 giugno 2018

I CONSIGLI DEL PAPA: ACCOGLIERE CON «CUORE SEMPRE APERTO, PRUDENZA, INTEGRAZIONE E VICINANZA UMANITARIA»


MIGRARE È UMANO

Francesco: «In teoria non si può chiudere il cuore a un rifugiato, ma ci vuole anche la prudenza dei governanti: devono essere molto aperti a riceverli, ma anche fare il calcolo di come poterli sistemare, perché un rifugiato non lo si deve solo ricevere, ma lo si deve integrare»




di Antonino Legname

La Chiesa deve fare la sua parte per favorire l'apertura dei cuori all'accoglienza di tanti disperati e per aiutare l'integrazione dei migranti nei Paesi dove vengono accolti affinché non si creino nuovi «ghetti» che isolano ed emarginano. In tante occasioni il Pontefice ha fatto appello alla coscienza delle comunità ecclesiali e dei singoli cristiani affinché aprano il cuore e le porte a quanti sono costretti dalla necessità, dalla fame, dalla violenza, dalla guerra e da condizioni di vita disumane a lasciare i loro Paesi in cerca di sicurezza e di dignità. Non bisogna dimenticare che “la storia dell'umanità è storia di migrazioni: ad ogni latitudine, non c’è popolo che non abbia conosciuto il fenomeno migratorio”. Se ripercorriamo la storia dell'umanità ci rendiamo conto che le migrazioni “hanno marcato profondamente ogni epoca, favorendo l’incontro dei popoli e la nascita di nuove civiltà. Nella sua essenza, migrare è espressione dell’intrinseco anelito alla felicità proprio di ogni essere umano, felicità che va ricercata e perseguita”. Non dobbiamo dimenticare che l'ospitalità dello straniero è una delle opere di misericordia: «Ero forestiero e mi avete ospitato» (Mt 25,35); e nell'Antico Testamento, ricco di riferimenti e di esempi di ospitalità, si dice espressamente: «Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio» (Lv 19,34); «Non molesterai il forestiero, né l'opprimerai» (Es, 22,20); «Amate dunque il forestiero» (Dt, 10,19); «Maledetto chi lede il diritto del forestiero» (Dt 27,19). Occorre, dunque, fare di tutto per superare gli atteggiamenti di chiusura e di paura. Non bisogna lasciarsi spaventare dall'integrazione delle culture, anche perché l'Europa si è costruita con l'apporto di tante culture diverse; è eccessiva anche la preoccupazione che il grande flusso migratorio possa costituire una seria minaccia alla cultura cristiana in Europa. La logica del rifiuto si alimenta di egoismo personale e sociale, amplificato da certe «demagogie populistiche» e nazionalistiche. Il Vescovo di Roma chiede che venga superata l'indifferenza e che alla paura si anteponga l'atteggiamento di accoglienza dignitosa e responsabile, anche attraverso l'apertura di “canali umanitari accessibili e sicuri”, verso coloro che “fuggono da guerre e persecuzioni terribili, spesso intrappolati nelle spire di organizzazioni criminali senza scrupoli”. Il Papa, con sano realismo, spiega che “in teoria non si può chiudere il cuore a un rifugiato, ma ci vuole anche la prudenza dei governanti: devono essere molto aperti a riceverli, ma anche fare il calcolo di come poterli sistemare, perché un rifugiato non lo si deve solo ricevere, ma lo si deve integrare”. È di fondamentale importanza “l’integrazione dei migranti nei tessuti sociali in cui si inseriscono, senza che questi sentano minacciata la propria sicurezza, la propria identità culturale e i propri equilibri politico-sociali. D’altra parte, gli stessi migranti non devono dimenticare che hanno il dovere di rispettare le leggi, la cultura e le tradizioni dei Paesi in cui sono accolti”. E in occasione della presentazione degli auguri per il nuovo anno 2017, Papa Francesco si è rivolto agli Ambasciatori accreditati presso la Santa Sede, esortandoli a prendere a cuore le sorti dei migranti, perché “sono persone, con nomi, storie, famiglie e non potrà mai esserci vera pace finché esisterà anche un solo essere umano che viene violato nella propria identità personale e ridotto ad una mera cifra statistica o ad oggetto di interesse economico”. In ogni caso i muri non sono la soluzione perché favoriscono i traffici criminali. E a  tal proposito il Pontefice si rivolge ai Governi affinché promuovano leggi giuste e “programmi tempestivi e umanizzanti nella lotta contro i «trafficanti di carne umana» che lucrano sulle sventure altrui”. Non c'è dubbio che “proteggere questi fratelli e sorelle è un imperativo morale”. Ma non basta proteggere - ha detto il Papa - occorre anche “promuovere lo sviluppo umano integrale dei migranti, profughi e rifugiati”; e tale sviluppo di promozione umana dei migranti e delle loro famiglie deve cominciare con gli aiuti di cooperazione internazionale da mettere in atto nei Paesi e nelle Comunità di origine. In ogni caso ad ogni essere umano deve essere garantito non solo “il diritto di poter emigrare, [ma] anche il diritto di non dover emigrare”. E se il migrante, il rifugiato e il profugo decidono o sono costretti a lasciare la loro Patria, devono essere integrati nel Paese che li accoglie, evitando il rischio delle pericolose  «ghettizzazioni». Ovviamente, come già detto, chi arriva in un Paese ospitante è tenuto a rispettare la cultura, le tradizioni e soprattutto le leggi di quel Popolo. Il Pontefice ribadisce che è un diritto di ogni essere umano emigrare ed è dovere dei Governi accogliere. L'accoglienza, però, “si deve fare con quella virtù cristiana che è la virtù che dovrebbe essere propria dei governanti, ovvero la prudenza”. Francesco chiede di accogliere tutti coloro che si «possono» accogliere. E ribadisce: “un governo deve gestire questo problema con la virtù propria del governante, cioè la prudenza. Cosa significa? Primo: quanti posti ho? Secondo: non solo riceverli, ma anche integrarli”. È importante riflettere su «come» accogliere, per evitare il «pericolo della non-integrazione». In ogni caso - ha detto il Papa - ci vuole “cuore sempre aperto, prudenza, integrazione e vicinanza umanitaria”.
 


[Dal libro di Antonino Legname, La Teopsia di      Francesco. Tra scienza e fede, il nuovo umanesimo   cristiano,integrale, popolare, solidale, inclusivo e gioioso, Le Nove Muse, Catania 2017, vol. I, pp. 360-363].   

sabato 2 giugno 2018

LA CHIESA POVERA DI FRANCESCO NEL LIBRO DELL'ARCIVESCOVO DI PALERMO

IL VOLTO DI UNA CHIESA POVERA SENZA FLASH E SENZA POTERE
 
  Lorefice: «Il servizio ai poveri può diventare, in molte forme, una esibizione o addirittura un vanto»
 
  
di Antonino Legname

Leggendo il libro di Mons. Corrado Lorefice, Il volto di una Chiesa povera. L’ecclesiologia conciliare di “Evangelii Gaudium” (San Paolo Edizioni, 2018, pp. 126) , nasce spontanea la domanda: «basta il servizio ai poveri perché ci sia una Chiesa povera?». Oggi viviamo in una società profondamente influenzata dai mass media, nella quale – come scrive Lorefice - «l’informazione viene costruita e l’immagine assume un rilievo superiore a quello di ogni sostanza reale». Pertanto, è sempre in agguato il rischio che anche il servizio ai poveri possa «diventare, in molte sue forme, una esibizione o addirittura un vanto» (p. 56). Non possiamo negare che a volte si puntano i riflettori mediatici sulla grandezza dell’opera, sulle grandi strutture ecclesiali a servizio della povertà, invece che sulla «effettività della testimonianza». Bisogna stare molto attenti – ha messo in guardia Lorefice – perché è reale il pericolo che tante opere – anche benemerite e meritorie – promosse dalla Chiesa «possono facilmente debordare dal lato della glorificazione mediatica del prete o del laico che le ha promosse» (ibid). Mons. Lorefice, senza voler demonizzare gli strumenti e gli spazi della comunicazione sociale, preferisce una Chiesa che non sia troppo preoccupata di ostentare in pubblico le sue opere caritative, e che sia a servizio degli uomini «nell’oscurità, nella quotidianità, nella testimonianza diuturna e invisibile». 
Don Corrado ricorda i volti semplici di uomini e donne, che lui stesso ha conosciuto quando era parroco e anche da Vescovo: «tante sorelle e tanti fratelli che hanno fatto della fedeltà al proprio compito quotidiano per l’altro – lungo gli anni e lungo i decenni – il motivo di una fedeltà gioiosa alla chiamata della vita» (pp. 57-58). È questa la santità quotidiana delle persone semplici, di cui tante volte ha parlato Papa Francesco. In quei volti, anonimi per l’opinione pubblica, Lorefice vede «il modello di una diakonia della Chiesa all’altezza della chiamata alla povertà» (p. 59). Il tono del ragionamento di Mons. Lorefice si fa più severo quando parla di quella Chiesa che vuole andare a braccetto con i potenti di questo mondo: «una Chiesa povera è in verità una Chiesa senza potere». E spiega: «È il tarlo del potere il vero veleno che penetra le fonti della vita della Chiesa e le impedisce di essere davvero povera, dei poveri e per i poveri» (p. 69). Questa non è utopia, ma è il Vangelo, che ci insegna che la forza della Chiesa non scaturisce dalla sicurezza delle sue strutture, dai suoi palazzi, dai rapporti di potere e dai legami con i potenti (cfr. ibid). La Chiesa non è un’istituzione mondana «che punti ad avere mezzi e risorse che le consentano una costante influenza nelle vicende del mondo» (p. 70). Non è utopia la Chiesa delle Beatitudini – ha rimarcato Lorefice – cioè quella Chiesa che vive nel mondo per annunciare il Vangelo della gioia «tra povertà e persecuzioni» (ibid). Nella misura in cui la Chiesa diventa povera di mezzi umani, ma ricca di Vangelo, saprà farsi compagna di strada con quanti piccoli e poveri vivono ai margini della società. E un’attenzione particolare l’Arcivescovo di Palermo la riserva alle sorelle e ai fratelli migranti. Non si tratta di una pura questione umanitaria – ha precisato Lorefice – ma dell’identificazione della Chiesa di Cristo con i poveri. E in questo momento, i migranti che sono costretti dalla guerra o dalla fame a lasciare i loro Paesi «rappresentano l’icona della povertà e dell’ingiustizia creata dai poteri di questo mondo».
Pertanto, alto si deve levare il grido della Chiesa contro l’oppressione e l’ingiustizia che deturpano il volto dell’uomo; e nello stesso tempo, forte si deve «alzare la voce verso Dio perché non lasci ancora che i suoi figli versino sangue innocente» (p. 73), e perché alla fine il bene e la giustizia trionfino.


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