Ubi Petrus, ibi Ecclesia: "Dove c'è Pietro, lì c'è la Chiesa" (Sant'Ambrogio, Explanatio Psalmi XL, 30, 5)

martedì 24 luglio 2018

«SOLO FINCHÉ SI È INQUIETI SI PUO’ STARE TRANQUILLI»


L’AMORE È IL SENSO DELLA VITA
Papa Francesco: «La nostra vita non è un vagabondare senza senso»



di Antonino Legname

Il cardinale Gianfranco Ravasi in un'intervista racconta che quando conobbe Julien Green, che da protestante si era convertito al cattolicesimo, gli disse che di lui aveva letto quasi tutto e che gli sarebbe piaciuto scoprire il nodo della sua religiosità. Lo scrittore gli rispose citando una frase del suo Diario: «solo finché si è inquieti si può stare tranquilli». Si tratta di un'interpretazione agostiniana dell'inquietudine. Il mio interrogarmi - dice Ravasi - non può prescindere dall'inquietudine. È quell'inquietudine che scaturisce dalle domande esistenziali, e che Papa Francesco ripropone nell'Enciclica  Laudato si': “A che scopo passiamo da questo mondo? Per quale fine siamo venuti in questa vita? Per che scopo lavoriamo e lottiamo? Perché questa terra ha bisogno di noi?”. In ogni caso, dice il Papa in un Tweet, “la nostra vita non è un vagabondare senza senso. Abbiamo una meta sicura: la Casa del Padre”. Il Pontefice parlando del Santo d'Ippona fa questa riflessione: “Agostino è un uomo «arrivato», ha tutto, ma nel suo cuore rimane l’inquietudine della ricerca del senso profondo della vita; il suo cuore non è addormentato, direi non è anestetizzato dal successo, dalle cose, dal potere. Agostino non si chiude in se stesso, non si adagia, continua a cercare la verità, il senso della vita, continua a cercare il volto di Dio. Certo commette errori, prende anche vie sbagliate, pecca, è un peccatore; ma non perde l’inquietudine della ricerca spirituale. E in questo modo scopre che Dio lo aspettava, anzi, che non aveva mai smesso di cercarlo per primo”. Papa Francesco sa quanto sia importante per la conversione non perdere mai l'inquietudine del cuore «per cambiare vita ed essere migliori», e per riconoscere che si sta percorrendo una strada sbagliata. “Quante volte ci diciamo: «Devo cambiare, non posso continuare così … La mia vita, per questa strada, non darà frutto, sarà una vita inutile e io non sarò felice». Quante volte vengono questi pensieri, quante volte!”. Ma con la fede o senza la fede il problema fondamentale per ogni essere umano è quello legato al senso della vita. Quando si perde o non si trova il senso della vita, il rischio di una grave malattia psichica è molto forte. Una vita senza senso è una vita sprecata. Solo l'essere umano è capace di porsi la questione fondamentale sul significato dell'esistenza. Papa Francesco esorta a “non accontentarci della mediocrità, a non «vivacchiare», ma a cercare il senso delle cose, a scrutare con passione il grande mistero della vita”. Qual è il significato della vita? La fede è una componente essenziale per dare un senso alla vita umana? La vita è arte e come tale richiede un non facile apprendimento per conoscerne la tecnica. Non è difficile vivere; ma vivere bene, con gioia e felicità, questo è veramente difficile e richiede tutta una vita per imparare il vero significato dell'esistenza umana. La domanda se la vita valga la pena di essere vissuta è insensata. La vita è un dono, nel senso che non siamo stati noi a sceglierla, ma ci è stata donata da altri. La vita non può essere paragonata ad un'impresa dove ciò che conta è il profitto e il successo, e dove il fallimento sarebbe la distruzione dell'impresa stessa. Tanti casi di suicidio sono causati dalla consapevolezza che la vita sia stata un fallimento e che non valga più la pena di vivere […]. C'è urgente bisogno di appellarsi almeno all'etica umanistica, cioè a quell'insieme di norme e di principi globalmente riconosciuti, come per esempio il valore dell'amore e della solidarietà, per aiutare l'uomo d'oggi nel difficile apprendimento dell'arte di vivere, che ha a che fare con la capacità di amare e di essere amati. Perché una vita senza amore è una vita senza senso. La mancanza di amore - secondo Erich Fromm - «è la causa fondamentale dell'infelicità e delle malattie spirituali dell'uomo», e spiega: “i disturbi e i sintomi del nevrotico hanno radice nella sua incapacità di amare ossia di provare interesse, rispetto, comprensione per un'altra persona, di sentirsi coinvolto nel suo destino, di desiderare intensamente che essa si sviluppi spiritualmente. La terapia analitica è in sostanza un tentativo di dare o ridare al paziente la capacità d'amare. In mancanza di questo sono possibili soltanto miglioramenti superficiali”. 
Ha ragione Giovanni Paolo II, quando dice che “l'uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l'amore, se non s'incontra con l'amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente”. Papa Francesco ribadisce che “nessuno di noi può vivere senza amore”. Nel libro-intervista, Dio e il mondo, Ratzinger sostiene che l'amore è ciò che dà senso della vita: “lo scopo finale della nostra esistenza consiste in ultima analisi nello scoprire, ricevere e dare amore [...]. Dio stesso è amore. In questo senso l'amore è davvero la legge e lo scopo fondamentale dell'esistenza [...]. L'amore è un'obiezione alla morte, come ha detto una volta il filosofo francese Gabriel Marcel [...]. Dire a una persona «ti amo» equivale a dire: mi rifiuto di accettare la tua morte, protesto contro la morte [...] poiché Dio ci ama, poiché vuole che cresciamo nella verità deve anche essere esigente e anche correggerci”. […]. Occorre, cioè, avere “fiducia” nella vita. Occorre pronunciare un “sì” alla vita! Non si tratta di una fiducia cieca nella vita e di ottimismo a buon mercato. Papa Francesco spiega che “l’ottimismo è un atteggiamento che serve un po’ in un momento, ti porta avanti, ma non ha sostanza. Oggi serve la speranza”; che è quella che spinge a guardare avanti e ad avere fiducia nella vita. Ovviamente, la speranza non cambia la vita, a volte triste e dolorosa nella sua cruda realtà, ma cambia la  prospettiva e l'atteggiamento nei confronti della vita stessa. Come dire: «la vita è come uno specchio, ti sorride se tu la guardi sorridendo»; al contrario se tu la guardi con pessimismo e nichilismo, la vita ti appare brutta e insensata. Guarda le cose da una buona prospettiva, e butta via gli occhiali troppo scuri del pessimismo che ti fanno vedere tutto così nero attorno a te. 


[Dal libro di Antonino Legname, La Teopsia di Francesco, Vol. II, Ed. Le Nove Muse, Catania 2017, pp. 767 - 771]

domenica 15 luglio 2018

LA CHIESA NON PUO' TACERE DI FRONTE ALLE INGIUSTIZIE E ALLA CHIUSURA DEI CUORI E DEI PORTI

LE TRE NAVI DELLA SOLIDARIETA’

L’arcivescovo Lorefice: «Una civiltà che si fondi sul “mors tua, vita mea”, una civiltà in cui sia normale che qualcuno viva perché un altro muore, è una civiltà che si avvia alla fine».


di Antonino Legname

Forte, vibrante e chiaro – senza giri di parole - è stato il Discorso che, il 15 luglio 2018 a Piazza Marina,  l’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, ha rivolto alla cittadinanza, in occasione del “festino di Santa Rosalia”: «Il giogo della mafia e di tutte le mafie – penso alla malavita, alla mentalità mafiosa – stringe il nostro territorio, penetra nelle nostre case, inquina la vita sociale, si incunea nella politica, persino in alcuni ambienti ecclesiali, con una tracotanza che ci lascia attoniti». Il tempo difficile che stiamo vivendo ci chiede di stare svegli e di guardare con occhi aperti «i segni dei tempi», che – ha spiegato Lorefice – sono «gli eventi della storia concreta delle donne e degli uomini d’oggi che ci parlano, ci chiamano ad un cambiamento». 
L’arcivescovo si è servito dell’immagine della nave - sulla quale viene portata l’immagine di S. Rosalia per le strade di Palermo - per lanciare il suo messaggio di denuncia e di speranza. Tutti sono invitati a salire idealmente su queste tre navi che rappresentano: Palermo, l’Italia e l’Europa. E per ognuna di queste navi, Lorefice ha evidenziato la fatica e le grandi difficoltà di navigazione. Anzitutto, la nave di Palermo, carica di tanti problemi, per esempio: il lavoro che manca, i nostri giovani che perdono la speranza e si sentono costretti a partire, le nostre periferie dove si vivono tanti disagi e aumentano i poveri. Il Pastore della Chiesa di Palermo chiede con urgenza e con coraggio di dare voce alle periferie, dove «il vero grande pericolo non è la paura, ma è la rabbia, è la rassegnazione, è l’evasione». Mons. Lorefice chiede a tutti, specialmente ai giovani, di non lasciarsi manipolare e di prendere in mano la vita e il futuro della Città di Palermo, tante volte colpita, ferita e infangata dalla violenza mafiosa. «Non lasciamo in mano a nessuno il nostro destino – ha esortato l’Arcivescovo -   guardiamo ai nostri testimoni, ai nostri martiri». Il ricordo va immediatamente a don Pino Puglisi, a 25 anni dalla sua morte, a Libero Grassi e a Piersanti Mattarella, tutti stroncati per mano della mafia. Ma dal sangue dei martiri nasce la speranza «che un mondo diverso è possibile e che la forbice tra chi ha e chi non ha può essere annullata da un pensiero di autentica condivisione» e di crescita della legalità. Per non restare curvi sotto il peso della cultura mafiosa occorre convincersi che la «nostra terra avrà un futuro se avremo la pazienza, il coraggio, la forza di costruirlo assieme» - ha detto Lorefice. Ma anche la seconda nave, quella dell’Italia, non naviga in un mare tranquillo, anzi rischia di fare acqua da tutte le parti. Come si può parlare di civiltà quando il principio su cui si fonda una certa cultura, impregnata di nazionalismo populista, è  “mors tua, vita mea”? Mons. Lorefice, senza peli sulla lingua, dice che «una civiltà in cui sia normale che qualcuno viva perché un altro muore, è una civiltà che si avvia alla fine». Come si può pretendere di costruire la propria felicità e il proprio benessere sull’infelicità altrui? - si domanda Lorefice. Purtroppo, non solo a livello personale ma anche a livello planetario, i cattivi esempi non mancano. Basti pensare allo sfruttamento selvaggio dell’Africa, depredata delle sue materie prime, da parte dei Paesi dell’Occidente. La denuncia dell'Arcivescovo è puntuale e severa: «Siamo noi i predoni dell’Africa! Siamo noi i ladri che, affamando e distruggendo la vita di milioni di poveri, li costringiamo a partire per non morire: bambini senza genitori, padri e madri senza figli». E da qui il discorso di Lorefice si concentra sull’esodo epocale che si abbatte sull’Europa. È la migrazione forzata di una marea di uomini, donne e bambini che dai Paesi poveri e martoriati dalla guerra viaggiano tra mille difficoltà e pericoli verso la nostra Europa. 
Ma come è possibile che non riusciamo a riconoscerci tutti come fratelli, «fratelli diversi» - ha specificato Lorefice – «ma fratelli». Ed ha evidenziato che la parola «fratello!» è bellissima, ma «appare settaria se non indica una apertura totale a tutti, al più vicino e al più lontano!». Quando ci convinceremo che l’umanità è una sola grande famiglia e tutti gli uomini hanno lo stesso diritto di essere abbracciati dalla madre terra e di vivere nella grande casa comune? Domanda inquietante per le nostre coscienze. Infatti, «se la casa comune si distrugge – ha avvertito Lorefice - tutti resteremo all’addiaccio, privi di un tetto». Che senso ha la logica egoistica e fallace del ‘prima noi’? Questo modo di pensare crea solo discriminazioni e divisioni tra i Paesi della stessa Europa. L’Arcivescovo di Palermo biasima e condanna senza mezzi termini «la miopia dell’egoismo politico, propugnato da governanti e da politici europei che spesso si vantano – soprattutto nell’Est – di costruire regimi privi delle garanzie e fuori dai confini minimi della democrazia». Cosa fa la Chiesa di fronte a questo scenario di gretta chiusura di alcuni Paesi dell’Europa ammalati di nazionalismo esasperato? Lorefice chiede con determinazione alla Chiesa di non restare in silenzio. Sarebbe un gravissimo peccato di omissione tacere di fronte a questo dramma che si consuma ogni giorno davanti ai nostri occhi; la Chiesa non deve mai dimenticare che per sua natura costitutiva deve stare «accanto ai poveri e ai derelitti della storia, e tutte le volte che è uscita – e quante volte è successo – [è uscita] da quel posto per mettersi accanto ai forti, ai ricchi, ai potenti, ha perso il senso stesso del suo essere».  L’appello del Pastore della Chiesa di Palermo si fa accorato quando chiede ai nostri Governanti di non chiudere i porti alle navi della speranza di tanta povera gente che cerca protezione e una vita migliore. «Perché se fermiamo le navi dei poveri, se chiudiamo i porti, siamo dei disperati. Disperiamo della nostra umanità, disperiamo della nostra voglia di vivere, del nostro desiderio di comunione». Alla fine, «non è questione di accoglienza - ha evidenziato il prelato - non si tratta di essere buoni, ma di essere giusti. Non di fare opere buone, ma di rispettare e, se necessario, ripensare il diritto dei popoli», ossia il «diritto di ogni uomo ad essere uguale, ad essere membro della città degli uomini, ad essere libero di vivere e di stare nel mondo, con dignità e fierezza. Mons. Lorefice, a conclusione del suo Discorso, lancia la scommessa ambiziosa per la costruzione di una nuova civiltà, in nome del Vangelo: «una civiltà dove nessun bambino venga educato a vedere nel diverso un nemico, una civiltà dove i governanti abbiano la passione per gli ultimi e per il rispetto della vita».


venerdì 13 luglio 2018

PAPA FRANCESCO TELEFONA AL FILOSOFO GIANNI VATTIMO

DAL «PENSIERO DEBOLE» AL «PENSIERO UMILE»
Vattimo: «Io credo di più come una vecchina che biascica il rosario che come un teologo che sa tutto. La mia è una religiosità da tre Ave Maria la sera. E recito anche l'Angelus e i Salmi»


di Antonino Legname

Papa Francesco, qualche giorno fa, ha telefonato a Gianni Vattimo, per ringraziarlo del libro "Essere e dintorni", che ha ricevuto in dono dal filosofo italiano. Vattimo, il padre del cosiddetto «pensiero debole», racconta con «commozione ed emozione» la chiamata di Francesco: «Il Papa è pur sempre il Papa, e poiché sono un credente e credo soprattutto nella Chiesa, è chiaro che aver parlato con lui mi ha profondamente colpito». E aggiunge: «Questo Papa mi toglie la “vergogna” di dichiararmi cattolico». Vattimo ha un passato di militanza comunista e di impegno a favore del “Coordinamento omosessuale” in Italia. Ma non ha mai rinnegato le sue origini cattoliche, quando militava come dirigente nell’azione cattolica e andava a predicare il Vangelo nelle campagne. Nel primo volume del mio libro la «Teopsia di Francesco», cerco di fare emergere alcuni aspetti della religiosità semplice, ma profonda - anche se a volte bizzarra e stravangate - di Gianni Vattimo, per il quale – come lui stesso scrive - la fede è: “la speranza che Cristo sia riuscito a sconfiggere la morte cominciando a sconfiggere il peccato […]. Io spero di non morire del tutto […]. Io credo di più come una vecchina che biascica il rosario che come un teologo che sa tutto. La mia è una religiosità da tre Ave Maria la sera […]. E recito anche l'Angelus […]. Quando recito i Salmi sento soprattutto il risuonare di tutta la storia dei martiri, dei santi, dei virtuosi, anche di Domenico Savio. E questo mi commuove profondamente. Sulla Sindone leggo i pellegrinaggi, la gente che ci è andata. È questa la storia della Chiesa […]. Per questo sono cristiano. Ammiro questa tradizione. Credo troppo alla Chiesa come comunità per essere protestante: non mi autorizzerei mai a fare un libero esame della Scrittura. Io mi sento dentro alla comunità che mi ha trasmesso il messaggio di Cristo e rispetto a questa mi sento responsabile”. […]. 
Gianni Vattimo, nella sua autobiografia a quattro mani, Non essere Dio, pubblicata nel 2006, in occasione dei suoi settant'anni, scrive: “l'ultima tappa della mia storia - non improvvisa, ovviamente - quella più scandalosa è che io ... ridivento cristiano”. Quella di Vattimo non è una «folgorazione sulla via di Damasco», ma è un ritorno al cristianesimo, non alla Chiesa cattolica, verso la quale Vattimo continua ad essere molto critico. Nei suoi libri più recenti il filosofo scrive sulle sue origini religiose, sulla madre che da bambino lo ha consacrato a Don Bosco, racconta di essere stato chierichetto, di aver militato nell'Azione Cattolica fino a ricoprire la carica di dirigente; nella sua adolescenza si confessava di frequente; al liceo organizzava incontri sull'Umanesimo integrale di Maritain; andava a fare prediche nelle parrocchie di campagna; seguiva gli esercizi spirituali, recitava il rosario. E come lui stesso riferisce, all'epoca provava disprezzo per i credenti poco zelanti e tiepidi. Tutto questo fino all'Università. Poi iniziò una lunga militanza di laicismo irreligioso. In uno scritto pubblicato con il titolo Credere di credere. È possibile essere cristiani nonostante la Chiesa?, il filosofo dà una svolta decisiva, non solo al suo pensiero filosofico, ma a tutta la sua vita. Che cosa ha scatenato il ripensamento del filosofo? Forse i tanti funerali di persone care a cui ha dovuto assistere in questi ultimi anni? - come lui stesso riferisce. La paura della morte spinge fino al punto di entrare nel rischioso paradosso della fede?  “Non mi vergogno a dire che c'entra l'esperienza della morte di persone care - ammette Vattimo - con cui avevo pensato di percorrere un tratto di strada molto più lungo, in qualche caso persone che mi ero sempre immaginato presenti accanto a me quando mi fosse toccato di andarmene […]. Forse al di là di questi incidenti, ciò che rimette in gioco, ad un certo punto della vita, la questione della religione ha a che fare con la fisiologia della maturazione e dell'invecchiamento”. È lo stesso Vattimo a confidare: “Sono sopravvissuto alle persone più care, alla mia famiglia. Per la prima volta sono solo. E sono diventato un esperto di un genere letterario molto particolare, i necrologi”. E confida: “Vado al cimitero tutte le domeniche - qui al Monumentale - dove ci sono, una sopra l’altra, le lapidi di Gianpiero e Sergio, e un loculo vuoto che mi aspetta. Mi sento in pace”. È comprensibile la riflessione di Gianni Vattimo di fronte all'ignoto, ma non bisogna credere in Dio per paura della morte - direbbe Sinjavskij - non si deve credere in Dio «perché non si sa mai» come andrà a finire, “non perché qualcuno ci costringe, non per un principio umanistico e non per salvare l'anima o per essere originali”. E allora, perché dobbiamo credere in Dio? Robert Spaemann risponde: “Bisogna credere per il semplice motivo che Dio esiste”. Vattimo passa dal pensiero debole al lamento quasi nostalgico.“Ho nei confronti della tradizione cristiana un complessivo atteggiamento amichevole, fatto di riconoscenza, rispetto, ammirazione. Non mi lascio scandalizzare dalle Crociate o dall'Inquisizione […] - scrive il filosofo - Ho simpatia per la storia della santità cristiana, per i martiri, le vergini, i confessori di cui parla, spesso in termini leggendari, il breviario romano. Non è affatto una tradizione di cui senta il bisogno di liberarmi, come non sento il bisogno di liberarmi delle tracce, che spero consistenti, della mia educazione cristiana e cattolica. Dalla quale ho imparato a organizzarmi la vita, a fare l'esame di coscienza”. Anche la preghiera segna il cammino esistenziale di Vattimo: “Dunque quando prego - giacché lo faccio nella maniera più tradizionale, soprattutto recitando i salmi e altre preghiere del breviario romano - sono consapevole di non agire solo sulla base di una persuasione filosofica, ma di andare invece un passo più in là”. Egli non nega la dimensione consolatoria del cristianesimo: “Non rifiuto certo la consolazione. Lo Spirito Santo che Gesù manda nella Pentecoste […] è anche autentico spirito di consolazione. La salvezza che cerco [...] non è, dunque, una salvezza che dipenda solo da me, che dimentichi il bisogno della grazia come dono che viene da un altro”. E la questione della fede si ripropone con tutta la sua forza nella vita di Vattimo: “Vero che sono arrivato a un punto della mia vita in cui sembra ovvio, prevedibile, anche un po' banale, che uno si riproponga la questione della fede. Riproporre: perché almeno per me, si tratta appunto di un ritorno di una tematica […] a cui sono stato legato nel passato”. Vattimo non fa mistero della sua vita affettiva e di relazione: “Mi sono innamorato di un cubista ventenne. Lo faccio per questa inedita libertà […] non per gusto della provocazione o per esibizionismo […]. Mi rimproverano: «Ma perché lo fai?». Oppure: «Chi te lo fa fare, potresti essere un guru e ti sputtani così». Io sorrido: lo faccio perché mi sento libero: perché sono libero. Ed è una cosa che mi tengo cara. Finalmente. Senza paure, senza mediazioni, senza ricatti possibili, senza creare dolore a mia madre, a Gianpiero […]. Senza chiese. Senza partiti. Ah, che bello”. Gianni Vattimo, intervistato in occasione del suo 80° compleanno, ha dichiarato: Oggi la mia dimensione esistenziale è il lamento”. E spiega: “Il senso della vecchiaia è la presa d’atto che c’è come un bivio, a un certo punto le tue storie personali coincidono sempre meno con la storia esterna”. E a chi gli domanda in merito al suo ritorno al cristianesimo, egli risponde: “In verità io non mi sono mai accorto di essermene allontanato. E perché sono sempre rimasto cristiano?
Il filosofo Gianni Vattimo
Perché ero heideggeriano. Heidegger, anche dopo i Quaderni neri, mi serve per pensare che la verità non è quella delle scienze, ma è quella della tradizione, della storia dell’Essere, del dialogo […] e questo è cristianesimo, è il Pensiero debole”.  Per Vattimo, in ultima analisi, il suo cristianesimo e il suo credere in Dio sono solo degli eventi culturali legati alla tradizione letteraria della Bibbia? Alla domanda del giornalista: «ma essere cristiano per lei vuol dire davvero credere in Dio? Il Dio della Chiesa romana cattolica apostolica [...]? ». Vattimo risponde: “Ma per carità! Mi piacerebbe anche, ma non succede. Il Dio in cui credo è il Dio della Bibbia, ma non in quanto sia uno che ha scritto la Bibbia: in quanto è il personaggio letterario della Bibbia. Insomma, Dio non esiste al di fuori di queste parole: il Verbo si fa carne, d’accordo, però prima il Verbo è solo Verbo, solo chiacchiere. A cosa sono legato io nel mio cristianesimo? Piuttosto a quello che diceva Croce: non posso non dirmi cristiano. Se tento di dirmi senza essere cristiano, non mi dico nemmeno, perché non ho le parole. Come immaginare la storia della letteratura italiana senza Dante”. Per Vattimo la Bibbia è solo una raccolta di libri mitologici: “posso solo credere a una storia che mi viene raccontata e che essendo raccontata è mito, è storia. La mitologia cristiana è quella nella quale sono cresciuto: ho delle buone ragioni per abbandonarla? Quando Heidegger dice che il linguaggio è la casa dell’Essere dice un po’ questo: cioè, io eredito una visione del mondo, vivo dentro un’epoca storica, perché il linguaggio è la lingua storica che parlo e che mi supporta mentre faccio esperienza del mondo”. Il «pensiero unico» di cui parla Papa Francesco non si identifica con il «pensiero debole» della filosofia di Vattimo, per il quale il «pensiero debole» “non è solo una filosofia, ma è anche un’interpretazione del cristianesimo - l’incarnazione, la kénosis, Dio che si fa uomo e quindi abbandona la sua sacralità”. Con una certa forzatura Vattimo ritiene che il termine «debole»  abbia a che vedere con la debolezza kenotica del Dio che, incurante della sua condizione divina, si è abbassato fino al punto da assumere la condizione umana. Il cristianesimo, se non vuole deragliare dalla sua naturale identità, non deve costruire un pensiero forte per contrastare altri pensieri forti, come per esempio quello dell'Islam.
Papa Francesco ha richiamato l'attenzione sui rischi di una certa “globalizzazione dell’uniformità egemonica” nella società e nella cultura di oggi. Ed ha spiegato che il “pensiero unico è frutto della mondanità […]. Lo spirito della mondanità anche oggi ci porta a questa voglia di essere progressisti, al pensiero unico”. Pertanto, tra il «pensiero forte» e il «pensiero debole», che allontanano da Dio, si colloca il «pensiero umile», il solo capace di avvicinare a Dio, che bussa alla porta degli umili. È un'illusione voler affermare l'uomo negando Dio. È anche vero, però, che nel corso della storia del pensiero umano la religione ha creato immagini così deformate di Dio (antropomorfiche, mitologiche, superstiziose) da suscitare legittime proteste di rifiuto. Questi pregiudizi metodologici e linguistici sono stati messi sotto accusa anche dalla Chiesa; nel documento conciliare Gaudium et Spes al n. 19 si legge: «Alcuni negano esplicitamente Dio (ateismo); altri ritengono che l’uomo non possa dir nulla di lui (agnosticismo); altri poi prendono in esame il problema relativo a Dio con un metodo tale per cui questo sembra privo di senso (positivismo, scientismo). Molti, oltrepassando indebitamente i confini delle scienze positive, o pretendono di spiegare tutto solo da questo punto di vista scientifico, oppure al contrario non ammettono ormai più alcuna verità assoluta». Chi ha fede nel Dio di Gesù di Nazaret deve essere, nel mondo di oggi, portatore e soprattutto testimone, con il suo comportamento, di quei valori che il più delle volte non coincidono con l'opinione e il modo di vivere della maggioranza. “I cristiani sono, dunque, uomini e donne «controcorrente» - ha detto il Papa -  Il mondo è segnato dal peccato, che si manifesta in varie forme di egoismo e di ingiustizia, chi segue Cristo cammina in direzione contraria. Non per spirito polemico, ma per fedeltà alla logica del Regno di Dio, che è una logica di speranza, e si traduce nello stile di vita basato sulle indicazioni di Gesù”. Non bisogna avere paura di andare contro-corrente e di essere anticonformisti. 
Francesco ci ricorda che “siamo chiamati a non lasciarci assorbire dalla visione di questo mondo, ma ad essere sempre più consapevoli della necessità e della fatica per noi cristiani di camminare contro-corrente e in salita”. Sappiamo bene che oggi ci vuole tanto coraggio per non conformarsi al «pensiero unico» che vuole annullare la presenza di Dio nella nostra società per sostituirlo con altri idoli, soprattutto con la deificazione dell'«io».

mercoledì 11 luglio 2018

«COLPEVOLE, VOSTRO ONORE!»

CRISTIANI SENZA CRISTO

Francesco: «La mancanza di fede è un ostacolo alla grazia di Dio»




di Antonino Legname

«Molti battezzati vivono come se Cristo non esistesse» - ha detto Papa Francesco durante l’Angelus di Domenica 8 luglio 2018, in piazza San Pietro. Che significa vivere da cristiano come se Cristo non esistesse? Il Pontefice spiega che, purtroppo, «si ripetono i gesti e i segni della fede, ma ad essi non corrisponde una reale adesione alla persona di Gesù e al suo Vangelo». Parole chiare che ci aiutano a fare un esame di coscienza in merito alla coerenza della nostra condotta di vita, «il cui filo conduttore sempre sarà la carità» - ha ricordato Francesco. Bisogna essere sempre aperti alle sorprese di Dio nella nostra vita. A volte la grazia di Dio si presenta a noi in modo sorprendente che va oltre le nostre aspettative. Il Papa porta l’esempio di Madre Teresa di Calcutta: «una suorina piccolina - nessuno dava dieci lire per lei – che andava per le strade per prendere i moribondi affinché avessero una morte degna. Questa piccola suorina con la preghiera e con il suo operato ha fatto delle meraviglie! La piccolezza di una donna ha rivoluzionato l’operato della carità nella Chiesa. È un esempio dei nostri giorni». 
L’invito di Francesco è di «aprire il cuore e la mente per accogliere la realtà divina che ci viene incontro. Si tratta di avere fede: la mancanza di fede è un ostacolo alla grazia di Dio». Purtroppo, oggi non è così raro il caso di battezzati senza la fede. A tal proposito mi piace offrire questa riflessione, che ho scritto nel mio ultimo libro, «La Teopsia di Francesco». «Un famoso ateo dei nostri giorni, Richard Dawkins ha messo il dito nella piaga delle incoerenze di tanti che a parole si dicono credenti: “Molti in cuor loro sanno di essere atei, ma non osano ammetterlo con la famiglia e a volte nemmeno con se stessi, anche perché il termine «ateo» è stato sempre caricato di connotazioni negative e inquietanti”. Anche l'ateo Christopher Hitchens, nel suo libro Dio non è grande, scrive: “Non possiamo sapere quanti individui in apparenza osservanti fossero in segreto degli increduli [...] che ritenevano opportuno mantenere per sé le proprie opinioni […]. Galileo sarebbe forse stato lasciato in pace con il suo lavoro astronomico se non fosse stato così poco saggio da ammettere che esso aveva implicazioni cosmologiche. Il dubbio, lo scetticismo e la completa incredulità hanno sempre assunto, nella sostanza, la stessa forma di oggi”. È vero che ci possono essere laici ed anche ecclesiastici che in cuor loro sanno di essere atei, ma non lo dicono e neppure osano pensarlo; però, di fatto, «vivono come se Dio non esistesse». Anche Dietrich Bonhoeffer scrisse che bisogna imparare a «vivere come se Dio non esistesse», ma nel senso che dobbiamo vivere l'esperienza umana come se tutto dipendesse da noi e nello stesso tempo vivere radicati in Dio come se tutto dipendesse da Lui. Bonhoeffer, infatti, anche nei momenti più bui della sua vita, continuò ad avere fede in Dio. Papa Francesco spiega che “idoneità e sagacia rappresentano anche la risposta umana alla grazia divina, quando ognuno di noi segue quel famoso detto: «fare tutto come se Dio non esistesse e, in seguito, lasciare tutto a Dio come se io non esistessi»” (Discorso alla Curia Romana, 21 dicembre 2015). Il cardinale Kasper riconosce che bisogna essere grati a questo Papa per aver risvegliato negli uomini del nostro tempo, secolarizzato e indifferente per le cose religiose, un certo interesse per le questioni di fede: “si vive come se Dio non esistesse, e tuttavia oggi si parla ovunque della novità rappresentata da Francesco e delle grandi domande che pone al nostro tempo; si torna a parlare di religione, il cristianesimo vive una nuova attualità, e la gente parla di Dio come le donne facevano al mercato nei primi secoli dell'era cristiana […]. Il papa sta, infatti, cambiando le idee e l'atteggiamento della gente nei confronti del fatto religioso. Penso si debba parlare di un effetto Francesco molto positivo, che coinvolge il tempio, il palazzo, le piazze e le frontiere”. 
Ma è sempre in agguato il pericolo di non lasciarsi coinvolgere più di tanto dal messaggio «rivoluzionario» di amore, di giustizia e di pace di Gesù di Nazaret, anzi sembra proprio che a volte ci dia fastidio e che ci metta in imbarazzo.  
Nel romanzo di Dostoevskij, I fratelli Karamazov, si trova la «Leggenda del Grande Inquisitore»; l'autore immagina il ritorno di Cristo sulla terra, che cammina per le strade della città spagnola dove, alla presenza di tutti i cittadini, il cardinale Grande Inquisitore stava consegnando al rogo un centinaio di eretici. Gesù arriva in silenzio, eppure il popolo lo riconosce, lo avvicina ed è pronto a seguirlo.
Ma in quel momento il Grande Inquisitore attraversa la piazza, si ferma a guardare incupito la folla. Poi ordina alle sue guardie di catturare Cristo e di rinchiuderlo in prigione. Nell'oscurità del carcere, nel vecchio edificio del Sant'Uffizio, il quasi novantenne e potente ministro della Chiesa pronuncia contro il Messia un fortissimo atto d'accusa: «Perché sei venuto a disturbarci? Sei , infatti, venuto a disturbarci, lo sai anche Tu. Ma sai che cosa succederà domani? […]. Io ti condannerò e ti farò ardere sul rogo come il peggiore degli eretici, e quello stesso popolo che oggi baciava i Tuoi piedi si slancerà domani, a un mio cenno, ad attizzare il Tuo rogo, lo sai? […]. Ti brucerò per essere venuto a disturbarci. Perché se qualcuno più di tutti ha meritato il nostro rogo, sei Tu. Domani Ti arderò. Dixi [Ho detto!]».  Anthony del Mello, sullo sfondo del romanzo di Dostoevskij, immagina questo dialogo serrato:  «Prigioniero - proclamò il Grande Inquisitore - siete accusato di aver incoraggiato la gente e violare la legge, le tradizioni e le usanze della nostra santa religione. Siete colpevole o innocente?». «Colpevole, Vostro Onore». «E in quanto a frequentare la compagnia di eretici, prostitute, pubblici peccatori, esattori delle imposte, colonialisti e oppressori della nazione, in breve tutti gli scomunicati?».  «Colpevole, Vostro Onore». «Infine, siete accusato di aver modificato, corretto e messo in questione i sacri dogmi della nostra fede. Colpevole o innocente?». «Colpevole, Vostro Onore». «Come vi chiamate, prigioniero?». «Gesù Cristo, Vostro Onore».

sabato 7 luglio 2018

PER CONTRASTARE IL SILENZIO COMPLICE E L’OMICIDIO DELL’INDIFFERENZA


“VI SIAMO VICINI”
Papa Francesco: «Vogliamo dare voce a chi non ha voce, a chi può solo inghiottire lacrime»




di Antonino Legname

«Vi siamo vicini», ha assicurato Papa Francesco alle tantissime persone che vivono situazioni di grande sofferenza nel Medio Oriente. La preghiera di Francesco si è fatta accorata durante l’incontro ecumenico per la pace, che si è svolto a Bari, il 7 luglio 2018, e al quale hanno partecipato i Patriarchi cattolici e ortodossi del vicino Oriente. L’invito del Vescovo di Roma a rivolgere la mente e il cuore al Medio Oriente, «crocevia di civiltà e culla delle grandi religioni monoteistiche». Noi cristiani non dobbiamo mai dimenticare che «in Medio Oriente ci sono le radici delle nostre stesse anime». Peccato che su questa meravigliosa Regione, «si è addensata, specialmente negli ultimi anni, una fitta coltre di tenebre - ha lamentato con dolore Francesco - guerra, violenza e distruzione, occupazioni e forme di fondamentalismo, migrazioni forzate e abbandono, il tutto nel silenzio di tanti e con la complicità di molti». Non si può restare indifferenti di fronte a tanta gente che è costretta ad abbandonare la propria terra. «C’è il rischio – ha messo in guardia il Papa - che la presenza di nostri fratelli e sorelle nella fede sia cancellata». 

Ma cosa sarebbe quella Regione senza la presenza dei cristiani? Francesco risponde che «senza i cristiani il volto del Medio Oriente viene deturpato … perché un Medio Oriente senza cristiani non sarebbe Medio Oriente». Nell’accendere la «lampada uniflamma» - una sola fiamma alimentata da diversi olii provenienti dall’Oriente – si vuole simboleggiare e ricordare che la Chiesa voluto da Cristo è una e che i cristiani devono essere luce del mondo, non solo quando tutto intorno è radioso ma anche quando attorno a noi ci sono le tenebre del male. I cristiani – ha ricordato il Papa - «nei momenti bui della storia, non si rassegnano all’oscurità che tutto avvolge e alimentano lo stoppino della speranza con l’olio della preghiera e dell’amore». Ancora una volta, il Vescovo di Roma punta il dito contro la globalizzazione dell’indifferenza che uccide la dignità dell’essere umano. Invece – ha esortato - «noi vogliamo essere voce che contrasta l’omicidio dell’indifferenza. Vogliamo dare voce a chi non ha voce, a chi può solo inghiottire lacrime». È sotto gli occhi di tutti quello che succede in quella martoriata Regione, che fu la culla del cristianesimo; «il Medio Oriente oggi piange, oggi soffre e tace, mentre altri lo calpestano in cerca di potere e ricchezze». 

IL PELLEGRINAGGIO VERSO LA PIENA UNITA’


LA DIVERSITA’ RICONCILIATA

Papa Francesco a Bartolomeo I: «Santità benedica me e la Chiesa di Roma»


Papa Francesco e il Patriarca Bartolomeo I


di Antonino Legname

Quella del «poliedro» è un'immagine che Papa Francesco ha usato spesso per spiegare la ricchezza della diversità riconciliata, non solo all'interno della Chiesa cattolica ma anche nel cammino ecumenico per l'unità dei cristiani. In quanto Vescovo di Roma e Successore di Pietro, Francesco è consapevole della sua responsabilità nel cammino ecumenico verso l'unità dei cristiani; e questa è una delle sue principali preoccupazioni.  Ovviamente ci sono tante ferite del passato ancora aperte che rendono difficile il cammino della piena riconciliazione. Nei confronti degli ortodossi, per esempio, ricordiamo il gesto umiliante in occasione del Concilio di Firenze nell'anno '400, “quando il papa, che se ne stava distante e in disparte, umiliò gli ortodossi chiedendo loro di baciargli i piedi”. Facendo riferimento a quel contesto storico si capisce meglio il gesto di Papa Francesco di chinare il capo davanti al Patriarca ecumenico Bartolomeo e di chiedergli la benedizione, quando il 30 novembre 2014 lo ha incontrato nella sede del patriarcato di Costantinopoli: “Santità benedica me e la Chiesa di Roma”. Bartolomeo rimase fermo e in silenzio; ma vedendo l'insistenza di Francesco si è avvicinato e lo ha baciato sul capo. Poi c'è stato l'abbraccio fraterno e Bartolomeo da parte sua ha voluto baciare la mano del Papa, mentre Francesco tentava di ritirarla. Tra gli ambienti più conservatori non sono mancati coloro che si sono indignati e scandalizzati di fronte a quel gesto di umiltà di Papa Francesco. E che dire allora del segno altamente significativo di Papa Paolo VI, quando il 14 dicembre 1975, si inginocchiò nella Cappella Sistina davanti al metropolita Militone e gli baciò i piedi, “in riparazione proprio della triste scena del Concilio di Firenze” - spiega il cardinale Kasper, il quale ricorda la costernazione della Curia: “ci fu chi disse che il papa aveva perso la testa” [citato nel libro Testimone della misericordia, p. 139]. Questi gesti altamente simbolici esprimono la volontà di conversione a cui anche la Chiesa cattolica è chiamata, affinché si possa realizzare il desiderio di Cristo: «Ut unum sint». Papa Francesco racconta che mentre si trovava a Lesbo insieme al Patriarca Bartolomeo e salutava tutti, si chinò verso un bambino. “Ma al bambino non interessavo - riferisce il Papa - guardava dietro di me. Mi volto e vedo perché: Bartolomeo aveva le tasche piene di caramelle e le stava dando a dei bambini. Questo è Bartolomeo, un uomo capace di portare avanti tra tante difficoltà il Grande Concilio Ecumenico ortodosso, di parlare di teologia ad alto livello, e di stare semplicemente con i bambini”.  Ai fratelli della Chiesa ortodossa, Francesco ha voluto assicurare che, “per giungere alla meta sospirata della piena unità, la Chiesa cattolica non intende imporre alcuna esigenza, se non quella della professione della fede comune, e che siamo pronti a cercare insieme, alla luce dell’insegnamento della Scrittura e dell’esperienza del primo millennio, le modalità con le quali garantire la necessaria unità della Chiesa nelle attuali circostanze”. Durante l'Udienza Generale del 20 gennaio 2016, il Vescovo di Roma ha voluto ricordare che c'è un legame indissolubile tra tutti i cristiani - protestanti, ortodossi, cattolici - in forza della grazia del battesimo: “La misericordia di Dio, che opera nel Battesimo, è più forte delle nostre divisioni” - ha detto, auspicando che tutte le Chiese possano dare testimonianza fraterna e concreta di unità condividendo le opere di misericordia corporali e spirituali. In questo modo è possibile offrire all'umanità, specialmente ai più lontani, il santo contagio della misericordia di Dio.  “Mentre siamo in cammino verso la piena comunione tra noi, possiamo già sviluppare molteplici forme di collaborazione - ha suggerito il Papa - andare insieme e collaborare per favorire la diffusione del Vangelo. E camminando e lavorando insieme, ci rendiamo conto che siamo già uniti nel nome del Signore” […]. Di portata storica è stato l'incontro a Cuba, il 12 febbraio 2016, tra Papa Francesco e il Patriarca Kirill di Mosca e di tutta la Russia, la prima volta dopo lo scisma del 1054. 
Papa Francesco e il Patriarca di Mosca Kirill
In quel memorabile incontro presso l'aeroporto internazionale "José Martí" - de La Habana, Francesco e Kirill hanno firmato una «Dichiarazione congiunta», nella quale si evince la determinazione delle due Chiese sorelle, cattolica e ortodossa, “a compiere tutto ciò che è necessario per superare le divergenze storiche” ereditate dal passato, e di impegnarsi concretamente per la pace, la giustizia e la salvaguardia del creato […]. Il 29 febbraio 2016, Papa Francesco ha incontrato in Vaticano Sua Santità Abuna Matthias I, Patriarca della Chiesa Ortodossa Tewahedo di Etiopia, e in quell'occasione ha ricordato che la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali hanno «quasi tutto in comune»: “una sola fede, un solo Battesimo, un solo Signore e Salvatore Gesù Cristo. Siamo uniti in virtù del Battesimo, che ci ha incorporati nell’unico Corpo di Cristo. Siamo uniti grazie ai vari elementi comuni delle nostre ricche tradizioni monastiche e pratiche liturgiche. Siamo fratelli e sorelle in Cristo. Come è stato più volte osservato, ciò che ci unisce è molto più grande di ciò che ci divide”. Il Papa auspica che l'«ecumenismo dei martiri» cristiani del nostro tempo possa essere seme fecondo dell'unità dei cristiani. “Siamo consapevoli - ha ammesso Francesco - che la storia ha lasciato un fardello di dolorosi malintesi e di diffidenza, per il quale chiediamo il perdono e la guarigione di Dio”; occorre alimentare la speranza che un giorno tutti i cristiani “saremo uniti intorno all’altare del Sacrificio di Cristo, nella pienezza della comunione eucaristica” […]. Il Papa ha lanciato un accorato appello a “vivere nella carità e nella mutua comprensione anche le differenze […] e a comporre le divergenze con il dialogo e la valorizzazione di quanto unisce”, senza la strumentalizzazione e la manipolazione della fede […]. “L’unità non è assorbimento. L’unità dei cristiani non comporta un ecumenismo «in retromarcia», per cui qualcuno dovrebbe rinnegare la propria storia di fede; e neppure tollera il proselitismo, che anzi è un veleno per il cammino ecumenico. Prima di vedere ciò che ci separa, occorre percepire anche in modo esistenziale la ricchezza di ciò che ci accumuna, come la Sacra Scrittura e le grandi professioni di fede dei primi Concili ecumenici” […]. Occorre il coraggio di cercare e trovare vie nuove di riconciliazione per promuovere e realizzare l'inestimabile dono dell'unità di tutti i cristiani. Si tratta di continuare a camminare insieme con «perseverante determinazione» in questo “pellegrinaggio verso la piena unità”. 

 [Dal libro di Antonino Legname, La Teopsia di Francesco, Vol. II, Ed. Le Nove Muse, Catania 2017, pp. 708-712]

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