Ubi Petrus, ibi Ecclesia: "Dove c'è Pietro, lì c'è la Chiesa" (Sant'Ambrogio, Explanatio Psalmi XL, 30, 5)

martedì 28 aprile 2020

«LA VERITÀ NON TOLLERA LE PRESSIONI»


IL LINCIAGGIO QUOTIDIANO
Francesco: «Notizie false, calunnie che riscaldano il popolo e chiedono la giustizia. È un linciaggio, un vero linciaggio»



di Antonino Legname

«Pensiamo alla nostra lingua: tante volte noi, con i nostri commenti, iniziamo un linciaggio del genere. E nelle nostre istituzioni cristiane, abbiamo visto tanti linciaggi quotidiani che sono nati dal chiacchiericcio» - ha detto Papa Francesco nella Meditazione della Messa a Santa Marta, il 28 aprile 2020. Il Pontefice prende lo spunto dalla lapidazione del primo martire cristiano, Stefano, il quale ebbe un giudizio sommario ed ingiusto, costruito con le false testimonianze, che ebbe come epilogo la condanna a morte con l’accusa di bestemmia; così era stato anche per Gesù. Purtroppo, da sempre nella storia ci sono stati i processi popolari che hanno influenzato e a volte determinato il giudizio definitivo dei giudici: «notizie false, calunnie che riscaldano il popolo e chiedono la giustizia. È un linciaggio, un vero linciaggio». Francesco fa notare che per il giudice a volte non è sempre facile andare contro l’opinione pubblica che fa pressioni affinché venga ratificato quello che già il popolo ha deciso. Dice il Papa: «il giudice deve essere molto, molto coraggioso per andare contro un giudizio “così popolare”, fatto apposta, preparato». Quello che fece Pilato, quando vide la reazione del popolo e se ne lavò le mani pur vedendo chiaramente che Gesù era innocente. Questo è un modo scorretto di fare giurisprudenza - lamenta Francesco – che si utilizza anche oggi in alcuni Paesi, «quando si vuole fare un colpo di Stato o “far fuori” qualche politico perché non vada alle elezioni, si fa questo: notizie false, calunnie, poi si affida ad un giudice di quelli ai quali piace creare giurisprudenza con questo positivismo “situazionalista” che è alla moda, e poi condanna. È un linciaggio sociale». Parole chiare e forti che Francesco usa per condannare questo modo populista di fare giustizia, di condannare innocenti che sono stati giudicati colpevoli dall’opinione pubblica popolare. E’ quello che è successo ad Asia Bibi, accusata e condannata per blasfemia: «dieci anni in carcere perché è stata giudicata da una calunnia e da un popolo che ne vuole la morte». Francesco constata amaramente che davanti alla «valanga di notizie false che creano opinione, tante volte non si può fare nulla, non si può fare nulla». E con pena Francesco ripensa alla Shoah: «è stata creata l’opinione contro un popolo e poi era normale dire: “Sì, sì, vanno uccisi, vanno uccisi”. Un modo di procedere per “far fuori” la gente che è molesta, che disturba». Ancora una volta il Vescovo di Roma torna a condannare la brutta abitudine del «chiacchiericcio» che si configura come «linciaggio quotidiano» sulle persone per «creare una cattiva fama sulla gente, scartarla e condannarla». E per essere ancora più concreti Francesco fa l’esempio di chi sparla di qualcuno e dice: «“Ma no, questa persona è una persona giusta!” – “No, no, si dice che…”, e con quel “si dice che” si crea un’opinione per farla finita con una persona». Purtroppo, questa amara realtà delle chiacchiere per fare opinione e per distruggere la buona fama delle persone può essere presente anche a livello ecclesiale all’interno delle nostre comunità. «La verità – conclude il Papa – non tollera le pressioni». La meditazione del Papa ci porta a considerare con più attenzione anche il modo di fare giustizia nella Chiesa: un processo giusto richiede sempre il contraddittorio tra le parti in causa per garantire, a chi viene accusato, il sacrosanto diritto naturale alla difesa, al fine di evitare sentenze approssimative e ingiuste.

lunedì 27 aprile 2020

CHIESA E MASS MEDIA: LA SFIDA DELLA NUOVA EVANGELIZZAZIONE – SECONDA PARTE


IL PULPITO MODERNO
Francesco: «Non abbiate timore di farvi cittadini dell’ambiente digitale. La rivoluzione dei mezzi di comunicazione e dell’informazione è una grande e appassionante sfida, che richiede energie fresche e un’immaginazione nuova per trasmettere agli altri la bellezza di Dio»


di Antonino Legname

«La rivoluzione dei mezzi di comunicazione e dell’informazione è una grande e appassionante sfida, che richiede energie fresche e un’immaginazione nuova per trasmettere agli altri la bellezza di Dio», ha scritto Francesco nel Messaggio della 48ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali (abbr. GMCS). Non c’è dubbio che la Chiesa oggi si trovi ad affrontare la grande sfida dei mass media. Di fronte a tale sfida non serve né il rigetto a priori, né l’accettazione passiva. Direbbe Umberto Eco che nei confronti dei mezzi di comunicazione sociale non dobbiamo essere né «apocalittici», nel senso di vedere sempre e tutto negativo con tanti pericoli per l’umanità; e neppure «integrati», quando si pensa di non poter vivere senza questi strumenti e se ne minimizzano i rischi e i pericoli. Papa Francesco esorta i cristiani: «Non abbiate timore di farvi cittadini dell’ambiente digitale. È importante l’attenzione e la presenza della Chiesa nel mondo della comunicazione, per dialogare con l’uomo d’oggi e portarlo all’incontro con Cristo: una Chiesa che accompagna il cammino sa mettersi in cammino con tutti. Se in questo lungo periodo di quarantena, in cui siamo stati obbligati a stare «tutti a casa», non ci fosse stato il sostegno della tecnologia digitale e di internet, avremmo vissuto con grande difficoltà questo distanziamento e isolamento sociale ed ecclesiale. Papa Francesco fa presente che: «l’ambiente mediale oggi è talmente pervasivo da essere ormai indistinguibile dalla sfera del vivere quotidiano. La rete è una risorsa del nostro tempo, è una fonte di conoscenze e di relazioni un tempo impensabili» (53ma GMCS). La Chiesa ritiene che questi strumenti debbano essere usati, non solo per la corretta informazione, ma anche per la formazione, l’educazione e l’evangelizzazione; ovviamente anche per l’onesto svago. Se usati bene e per il bene sono un prezioso dono di Dio, favoriscono il progresso e l’unità della famiglia umana e aiutano a costruire la pace per lo sviluppo dei popoli. Pertanto, nel Villaggio globale in cui viviamo, la Chiesa ha il dovere di usare anche gli strumenti della comunicazione sociale per annunciare il Vangelo a tutti gli uomini fino agli estremi confini della terra. Già il Concilio Vaticano II, con il Decreto Inter Mirifica, rivolgeva un pressante appello a tutta la Chiesa, affinché utilizzi «senza indugio» e «col massimo impegno» gli strumenti della comunicazione sociale «nelle varie forme di apostolato».  I Padri conciliari hanno insistito sul fatto che questi strumenti non solo possono, ma devono essere «ordinariamente» utilizzati per l’annuncio del Vangelo; non sostituiscono i metodi tradizionali ma li integrano. Paolo VI definiva gli strumenti della comunicazione sociale una «versione moderna ed efficace del pulpito. Grazie ad essi la Chiesa riesce a parlare alle moltitudini» (Evangelii Nuntiandi, n. 45).
Immaginate quella sera del 27 marzo 2020, Papa Francesco da solo in una Piazza San Pietro deserta, senza la presenza fisica del popolo di Dio! Gli Operatori della comunicazione sociale con i loro potenti strumenti tecnologici hanno dato voce a quell’evento di commossa preghiera del Papa trasformandolo in un avvenimento planetario di profonda emozione. Anche la Via Crucis del Venerdì Santo, che si è svolta in Piazza San Pietro senza la gente, ha avuto una grande risonanza mediatica; veramente i mezzi di comunicazione sociale sono una grande finestra aperta sul mondo. Mai come oggi suona così attuale l’invito di Gesù a «predicare sui tetti». E in questo tempo di pandemia da Covid-19, incredibilmente si è realizzato alla lettera questa raccomandazione del Signore. Abbiamo visto Vescovi e Sacerdoti pregare e annunciare il Vangelo sui tetti delle case e delle Chiese.
E allora, senza paure, senza complessi di inferiorità e senza indugio entriamo sempre di più in questa immensa piazza mediatica, che Giovanni Paolo II non esitava a chiamare «aeropago del tempo moderno». Impariamo ad usare con professionalità e creatività questi strumenti della comunicazione per veicolare il messaggio del Vangelo, che è sempre lo stesso, ma viene trasmesso agli uomini d’oggi con i linguaggi a loro comprensibili. Alla predicazione tradizionale, fatta a viva voce, va aggiunta oggi la predicazione mediante i mass media. Nella strategia della nuova evangelizzazione cambiano i modi, i linguaggi e i veicoli di annuncio, ma rimangono identici i contenuti e le finalità. E a proposito dell’inflazione della parola, diceva Paolo VI: «L'uomo moderno sazio di discorsi si mostra spesso stanco di ascoltare e, peggio ancora, immunizzato contro la parola» (EN 42). E per rafforzare la sua convinzione, lo stesso Paolo VI aggiunge: «Conosciamo anche le idee di numerosi psicologi e sociologi, i quali affermano che l'uomo moderno ha superato la civiltà della parola, ormai inefficace ed inutile, e vive oggi nella civiltà dell'immagine».
Diceva don Giacomo Aberione, pioniere nel campo della comunicazione sociale, che la Chiesa non può più andare in diligenza mentre il mondo corre veloce in Jet. I tempi sono nuovi, il mondo va rapidamente, bisogna adeguarsi, perché chi si ferma o rallenta viene sorpassato. Con uno slogan possiamo dire che la Chiesa deve «educarsi ai mass media» e deve «educare con i mass media» per annunciare con coraggio, senza proselitismo, il Vangelo dell’amore «a tutte le Nazioni» e «sino agli estremi confini della terra». Il Concilio Vaticano II ha aperto una meravigliosa «pista di lancio» per spingere la Chiesa a spiccare il volo verso gli spazi digitali, ma ancora è molto lenta la fase del decollo. Va dato merito a quanti, Vescovi, Sacerdoti e Laici in questo difficile, e sotto certi aspetti frustrante, periodo di pandemia hanno saputo scommettersi, anche rischiando, nell’utilizzo dei mezzi digitali per incontrare virtualmente il popolo di Dio. Non perdiamo questo bagaglio di esperienza nel mondo degli strumenti della comunicazione sociale per continuare l’opera di evangelizzazione, ovviamente favorendo sempre l’incontro personale e la partecipazione reale e attiva alla vita sacramentale che è insostituibile. Non perdiamo mai di vista – come dice Papa Francesco - che la rete digitale può essere un luogo ricco di umanità e deve diventare «non una rete di fili ma di persone umane» (48ma GMCS).

mercoledì 22 aprile 2020

LA FOLLIA DELLA CROCE ANTIDOTO CONTRO IL MALE


LA SINDROME DEL PIPISTRELLO
Francesco: «Io cammino nella luce o cammino nelle tenebre? Sono figlio di Dio o sono finito per essere un povero pipistrello?»


di Antonino Legname

«C’è gente – anche noi, tante volte – che non possono vivere nella luce perché sono abituati alle tenebre. La luce li abbaglia, sono incapaci di vedere. Sono dei pipistrelli umani: soltanto sanno muoversi nella notte», ha detto Papa Francesco nella Meditazione della Messa a Santa Marta, il 22 aprile 2020. Questa possiamo chiamarla “sindrome del pipistrello”, che colpisce coloro che non vogliono o non riescono a guardare la luce della verità, anzi ne provano fastidio, essendo ormai abituati a vivere nell’oscurità del peccato e della corruzione. «Anche noi – dice Francesco - quando siamo nel peccato, siamo in questo stato: non tolleriamo la luce. È più comodo per noi vivere nelle tenebre; la luce ci schiaffeggia, ci fa vedere quello che noi non vogliamo vedere». Il pipistrello riesce a vedere nel buio, ma la sua capacità visiva si annulla in presenza della luce; quando c’è la luce del sole essi cercano i luoghi più bui e restano immobili appesi in qualche fessura. Il pipistrello è un animale che nel sentire comune  inquieta e provoca un certo ribrezzo; nella letteratura e nel cinema viene in genere presentato come una creatura malvagia, pericolosa e aggressiva, capace di succhiare il sangue delle sue vittime. Ricordiamo il conte Dracula, il vampiro che si trasformava in pipistrello e che di giorno stava chiuso in una bara e di notte usciva in cerca delle sue vittime per nutrirsi del loro sangue; qualcuno scherzando dice che Dracula sceglieva sempre le persone più allegre, perché – come si dice – “l’allegria fa buon sangue”. Il cristiano è figlio della luce e “chi fa la verità, viene verso la luce, perché appaia che le opere sono state fatte in Dio” (Gv 3,14-21). Papa Francesco ci ricorda che «la luce è venuta al mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie» (Gv 3,19). È brutto quando gli occhi del cuore e dell’anima si abituano a vivere nelle tenebre del male e così si finisce per ignorare la luce del bene: «tanti scandali umani, tante corruzioni ci segnalano questo – dice il Papa - I corrotti non sanno cosa sia la luce, non conoscono. Anche noi, quando siamo in stato di peccato, in stato di allontanamento dal Signore, diventiamo ciechi e ci sentiamo meglio nelle tenebre e andiamo così, senza vedere, come i ciechi, muovendoci come possiamo». Bisogna uscire dalle tenebre del male per riuscire a vedere la luce di amore e di verità che emana il Crocifisso. Gesù ci mette in guardia, perché “i figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce” (Lc 16,8). Per restare in tema di letteratura fantascientifica sappiamo che Dracula e tutti i suoi simili indietreggiavano con orrore alla vista del crocifisso, che è l’espressione più alta del bene e dell’amore di Dio per l’umanità. «Il Crocifisso è proprio il grande libro dell’amore di Dio» - dice Francesco. La Croce continua ad inquietare gli uomini d'oggi perché è il simbolo della sofferenza, è uno scandalo e ci mette davanti agli interrogativi essenziali dell’esistenza umana. Ma non dimentichiamo che il Crocifisso è la «cattedra di Dio» dove possiamo conoscere l’amore «folle», che salva e dà la vita: «lì c’è tutta la scienza, tutto l’amore di Dio, tutta la saggezza cristiana». Il dialogo tra Gesù e Nicodemo, che «è un vero trattato di teologia» - ha detto il Papa – ci porta a «guardare il crocifisso in silenzio, a guardare le piaghe, a guardare il cuore di Gesù, a guardare l’insieme: Cristo crocifisso, il Figlio di Dio, annientato, umiliato … per amore». E allora non bisogna scandalizzarsi della follia della Croce, che serve a scuoterci e a risvegliare in noi l'inquietudine spirituale di fronte al mistero della vita, del dolore e della morte. Perché sulla Croce c'è l'atto supremo dell'amore di Dio per l'umanità. Mai bisogna dimenticare che “la Croce è la porta della risurrezione”. La Via crucis ci porta sempre alla Via lucis. Papa Francesco ci invita a domandarci: «Io cammino nella luce o cammino nelle tenebre? Sono figlio di Dio o sono finito per essere un povero pipistrello?».

martedì 21 aprile 2020

SOLDI, VANITA’ E CHIACCHIERICCIO: I TRE VIRUS CHE DIVIDONO LE PERSONE E LE COMUNITA’


LA FORZA DEL SILENZIO IN TEMPO DI PANDEMIA
Per esercitarsi nell'arte dell'ascolto

Papa Francesco, Messa a Santa Marta, 21 aprile 2020 (foto da vatican.va)

di Antonino Legname

Nella Meditazione della Messa di questa mattina, 21 aprile 2020, a Santa Marta, Papa Francesco ci ha offerto lo spunto per riflettere sul valore del silenzio: «In questo tempo c’è tanto silenzio. Si può anche sentire il silenzio. Che questo silenzio, che è un po’ nuovo nelle nostre abitudini, ci insegni ad ascoltare, ci faccia crescere nella capacità di ascolto». Tanti anni fa uscì un libro di fratel Carlo Carretto dal titolo «Il deserto nella città». L’autore intendeva parlare di un deserto ideale, nel senso di voler costruire nel cuore delle nostre città e delle nostre case il corridoio di un ideale convento dove potersi raccogliere in silenzio per ritrovare se stessi e dove poter stabilire un rapporto con Dio attraverso l’ascolto e la preghiera. Oggi, a causa della pandemia da Covid-19, le nostre città si sono realmente trasformate in deserto e le nostre strade in reali corridoi di un ideale convento. In una società frenetica come la nostra, che ci ha abituati a vivere in mezzo al rumore continuo e assordante, è diventato veramente difficile fare silenzio per «sentire il silenzio». Solo quando l’uomo tace Dio parla attraverso lo Spirito Santo che è la vera fonte dell’armonia: ««Lo Spirito Santo è maestro di armonia» - ha detto Francesco – ed è Lui che ci insegna a fare armonia in noi stessi e con gli altri. La prima comunità cristiana, che ci viene presentata dagli Atti degli Apostoli, è il modello «ideale», «quasi celeste» di comunità, dove tutti vivono in armonia attorno ai quattro cardini della vita cristiana: l’insegnamento degli Apostoli, la frazione del Pane, la preghiera e la comunione fraterna: “avevano un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune, e nessuno era bisognoso”. Lo Spirito Santo - afferma Francesco - è capace di fare queste meraviglie. Purtroppo, l’uomo ha la libertà di opporsi all’azione dello Spirito e allora nascono i problemi e le discordie all’interno della comunità. E anche nelle prime comunità cristiane ci furono litigi e divisioni. Da che cosa sono provocate le divisioni nella comunità «parrocchiale o diocesana o presbiterale o di religiosi o religiose»? Senza mezzi termini, Papa Francesco dice che sono tre le cause principali che provocano i problemi e le divisioni nelle comunità cristiane: i soldi, la vanità e il chiacchiericcio. Non c’è dubbio che «i soldi dividono, l’amore dei soldi divide la comunità, divide la Chiesa». San Paolo nella Prima Lettera a Timoteo (6,10) lo scrive chiaramente:  «L'attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono da se stessi tormentati con molti dolori». Nella Storia della Chiesa – ci ricorda Francesco - dietro tante deviazioni dottrinali ci sono i soldi, gli interessi personali e la sete di potere. I soldi hanno la forza di dividere anche gli affetti più cari: «quante famiglie sono finite divise per un’eredità? Quante famiglie? E non si parlano più!». Quante amicizie distrutte per questioni di soldi! Quanti tradimenti e abbandoni si sono consumati a causa di questo pericoloso e insidioso idolo che è il denaro! Questa è la triste realtà! Invece, è lo spirito di povertà che ci porta a distaccare il cuore dai beni materiali; dice il Papa «questo è il muro che custodisce la comunità». L’altro elemento che porta divisione nella comunità è la vanità, cioè «quella voglia di sentirsi migliore degli altri. “Ti ringrazio, Signore, perché io non sono come gli altri”, la preghiera del fariseo». Tante volte Francesco ha parlato della pericolosa vanità del «pavone» che crea disparità tra le persone e crea divisione. Per esempio, anche nella celebrazione dei sacramenti è sempre in agguato il rischio di fare sfoggio di vestiti per apparire migliori o diversi dagli altri. Potremmo dire con il Libro del Qoèlet (1,2): «vanità delle vanità, tutto è vanità». E la terza causa di divisione nella comunità è il «chiacchiericcio». Tantissime volte Papa Francesco ha messo in guardia da questo insidioso virus delle chiacchiere, dello sparlare, del calunniare il prossimo. Questa è la cruda e dolorosa realtà di tante comunità “cristiane”. Dice il Papa: «il diavolo mette in noi, come un bisogno di sparlare degli altri. “Ma che buona persona è quella …” – “Sì, sì, ma …”: subito il “ma”: quello è una pietra per squalificare l’altro e subito qualche cosa che ho sentito la dico e così l’altro lo abbasso un po’». Che brutta abitudine è quella di colpire alle spalle chi non può difendersi. Purtroppo, le chiacchiere a volte sono una semente di zizzania che attecchisce anche nel cuore di chi ascolta, perché rimane il dubbio, il sospetto: “sarà vero oppure sono solo chiacchiere dettate dall’invidia e dalla gelosia?». Mi ha particolarmente colpito quello che insegnava il Padre del deserto, Sant’Arsenio: “tante volte mi sono pentito di aver parlato, mai di aver taciuto». Ed è sempre valido l’assioma: «quando devi parlare di qualcuno agli altri in sua assenza, o ne parli in bene o non ne parli affatto!». 


lunedì 20 aprile 2020

CHIESA E MASS MEDIA: LA SFIDA DELLA NUOVA EVANGELIZZAZIONE – PRIMA PARTE


LE MERAVIGLIOSE INVENZIONI TECNICHE PER RACCONTARE «LA STORIA DELLE STORIE»

Francesco: «In un’epoca in cui la falsificazione si rivela sempre più sofisticata, raggiungendo livelli esponenziali (il deepfake), abbiamo bisogno di sapienza per accogliere e creare racconti belli, veri e buoni. Abbiamo bisogno di coraggio per respingere quelli falsi e malvagi»



di Antonino Legname

In questo periodo di pandemia da Covid-19, i nostri Vescovi con grande senso di responsabilità, e non senza sofferenza, hanno ritenuto di dover chiedere ai sacerdoti di celebrare la liturgia senza la partecipazione fisica del Popolo di Dio. Questa inedita situazione ha in un certo senso costretto i Vescovi e i Presbiteri a trasmettere le celebrazioni liturgiche, in modo particolare la Messa, in diretta streaming sui social media per far partecipare i fedeli e per mantenere un contatto, anche se “virtuale” ma non irreale, con la gente. Ovviamente questo non è l’ideale di Chiesa, come ha detto di recente Papa Francesco nella Meditazione della Messa a Santa Marta, e se si dovessero «viralizzare» i Sacramenti e il Popolo di Dio, questo sarebbe pericoloso per la vita della Chiesa. Nello stesso tempo, però, non si può dubitare che questa presenza massiccia della Chiesa nella piattaforma digitale in questo tempo di emergenza, si è rivelata utile e in certi casi anche efficace nel servizio all’Evangelizzazione. Purtroppo, anche noi sacerdoti ci siamo resi conto di quanta difficoltà e forse anche impreparazione c’è ancora nell’utilizzo di tali strumenti tecnologici, sempre più sofisticati e a volte anche insidiosi. Con questa serie di articoli mi propongo di offrire un modesto contributo per sensibilizzare di più gli operatori della pastorale, sacerdoti e laici, a non disperdere questo immenso potenziale umano di creatività tecnologica a servizio dell’evangelizzazione, che ci spinge a «predicare sui tetti» - come dice Gesù. E oggi sui tetti ci sono le antenne e le parabole satellitari. Non bisogna dimenticare che l’uso dei mezzi della comunicazione sociale per la nuova evangelizzazione è un dovere da parte della Chiesa. Il Decreto conciliare Inter Mirifica, forse ancora poco conosciuto e attuato, è stato profetico e lungimirante perché, per la prima volta in maniera coraggiosa e sistematica, ha cercato di rispondere alla grande sfida della comunicazione sociale ed ha aiutato tutta la Chiesa a prendere coscienza del potente influsso dei Mass Media a livello planetario. Fu proprio Paolo VI che il 2 aprile 1964 istituì la Commissione per le comunicazioni sociali e a partire dal 1967 inaugurò la Giornata Mondiale delle comunicazioni sociali, che ogni anno propone temi di grande attualità, quali fonte di ispirazione e occasione di riflessione per gli operatori pastorali, per i professionisti dell’informazione e per tutta la Chiesa. Un grande impulso per la pastorale delle comunicazioni sociali fu dato dall’Istruzione pastorale Communio et Progressio di Paolo VI, del 23 maggio 1971. Ormai siamo consapevoli che la comunicazione sociale è un fenomeno di massa globalizzato; che i Mass Media sono una finestra aperta sul mondo; che la vita dei singoli e della società è fortemente influenzata e in parte anche condizionata dall’uso, dall’abuso o dal mal uso degli strumenti della comunicazione sociale. È sotto gli occhi di tutti il continuo sviluppo della tecnologia digitale e nessuno oggi si può illudere di sfuggire o di sottrarsi a questa presenza «potente» che a volte rischia di diventare «pre-potente» e «invadente». Non dobbiamo dimenticare che i Mass Media sono «strumenti» e in quanto tali sono ambivalenti, nel senso che posso essere usati per costruire o per distruggere l’uomo e la società, per unire o per disgregare la famiglia umana. Chi utilizza gli strumenti della comunicazione sociale li può finalizzare al bene o al male, a promuovere e a difendere la verità oppure a diffondere la menzogna, con le cosiddette fake news. Il 24 gennaio 2020, nel Messaggio per la 54ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, Papa Francesco ha ricordato che «in un’epoca in cui la falsificazione si rivela sempre più sofisticata,  raggiungendo livelli esponenziali (il deepfake), abbiamo bisogno di sapienza per accogliere e creare racconti belli, veri e buoni. Abbiamo bisogno di coraggio per respingere quelli falsi e malvagi». Il fine corretto dei Mass Media è quello di favorire il dialogo e la solidarietà tra gli uomini e tra le diverse culture attraverso la diffusione di «notizie» (informazione), di «idee» (cultura), di «insegnamenti» (formazione). Nell’uso degli strumenti della Comunicazione sociale, la Chiesa deve mantenere un «equilibrato realismo». Per questo Papa Francesco ha detto che la Chiesa esiste come Popolo concreto e che i Sacramenti devono essere celebrati realmente e non virtualmente. Questo però non significa per la Chiesa uscire dal mondo digitale per evitare i possibili rischi di individualismo e i pericoli di assuefazione alienante, ma essere lievito buono che dall’interno cerca di «infondere un’anima umana e cristiana a questi strumenti» per utilizzarli nelle varie forme di apostolato. «La Chiesa in uscita», di cui parla Papa Francesco, è anche quella che raggiunge il grande popolo di coloro, specialmente ragazzi e giovani, che abitualmente navigano nell’oceano mediatico del mondo digitale e che forse parlano l’unico linguaggio che conoscono, quello tecnologico e digitale fatto di immagini, di video, di giochi e di musica. Nel prendere coscienza di questo suo dovere, «la Chiesa si sentirebbe colpevole di fronte al suo Signore se non adoperasse questi potenti mezzi che l’intelligenza umana rende ogni giorno più perfezionati» (Paolo VI, Evangelii Nuntiandi, n. 45).

venerdì 17 aprile 2020

LA FAMILIARITA’ CON IL SIGNORE È QUOTIDIANA E COMUNITARIA


NO ALLA CHIESA VIRALIZZATA
Francesco: «Prima della Pasqua, quando è uscita la notizia che io avrei celebrato la Pasqua in San Pietro vuota, mi scrisse un vescovo e mi ha rimproverato: “Stia attento a non viralizzare la Chiesa, a non viralizzare i Sacramenti, a non viralizzare il Popolo di Dio"
 
Papa Francesco durante la Meditazione della Messa a Santa Marta, 17 marzo 2020 (foto da Vatican.va)

di Antonino Legname

«La gente che è collegata con noi, fa soltanto la Comunione spirituale. E questa non è la Chiesa: questa è la Chiesa di una situazione difficile, che il Signore lo permette, ma l’ideale della Chiesa è sempre con il popolo e con i Sacramenti», ha detto Papa Francesco nella Meditazione della Messa a Casa Santa Marta, il 17 aprile 2020. Il Pontefice ha preso lo spunto dal Vangelo del giorno per spiegare che gli Apostoli, a contatto diretto con Gesù, erano cresciuti nella «familiarità» con Lui. Anche i cristiani siamo chiamati a crescere nella «familiarità con il Signore», non solo personalmente ma anche comunitariamente, come Popolo. Infatti, ha spiegato Francesco: «Una familiarità senza comunità, una familiarità senza il pane, una familiarità senza la Chiesa, senza il popolo, senza i sacramenti è pericolosa». Noi viviamo in un mondo globalizzato dove è sempre in agguato il rischio di trasformare la tecnologia in tecnocrazia, cioè in potere dei tecnici della scienza, dell’economia e della politica. Nessuno mette in dubbio l’utilità dell’uso corretto dei mezzi di comunicazione sociale, che sono certamente una finestra aperta sul mondo. Ma quando si tende a «viralizzare» tutto, non solo i sentimenti e i rapporti umani, ma anche la fede e la pratica religiosa, allora questi mezzi di comunicazione sociale si trasformano in strumenti di alienazione sociale e religiosa. I cristiani non possiamo limitarci a vivere una fede personalistica e intimistica, ma se vogliamo crescere nella familiarità con il Signore non possiamo fare a meno di camminare insieme come popolo di Dio: «Questa familiarità con il Signore, dei cristiani, è sempre comunitaria – ha ribadito il Papa - Sì, è intima, è personale ma in comunità». Altrimenti diventa una «familiarità gnostica, una familiarità per me soltanto, staccata dal popolo di Dio. La familiarità degli Apostoli con il Signore sempre era comunitaria, sempre era a tavola, segno della comunità. Sempre era con il Sacramento, con il pane». La riflessione di Papa Francesco vuole incoraggiare e spingere la Chiesa a vivere concretamente e comunitariamente la vita sacramentale, anche in tempo di pandemia; ovviamente con tutte le dovute precauzioni, per evitare il contagio tra i fedeli che partecipano alle celebrazioni. Il Pontefice riferisce: «Prima della Pasqua, quando è uscita la notizia che io avrei celebrato la Pasqua in San Pietro vuota, mi scrisse un vescovo e mi ha rimproverato. “Ma come mai, è così grande San Pietro, perché non mette 30 persone almeno, perché si veda gente? Non ci sarà pericolo …”. Io pensai: “Ma, questo che ha nella testa, per dirmi questo?”. Io non capii, nel momento. Ma siccome è un bravo vescovo, molto vicino al popolo, qualcosa vorrà dirmi. Quando lo troverò, gli domanderò. Poi ho capito. Lui mi diceva: “Stia attento a non viralizzare la Chiesa, a non viralizzare i Sacramenti, a non viralizzare il Popolo di Dio"». Non mi pare che ci voglia l’ermeneutica teologica per comprendere il monito di Papa Francesco, il quale ha detto che questo momento difficile che stiamo vivendo è pericoloso anche per la vita della Chiesa: «questa pandemia ha fatto che tutti ci comunicassimo anche religiosamente attraverso i media, attraverso i mezzi di comunicazione». È innegabile che anche così, «stiamo insieme, ma non insieme», che siamo tutti spiritualmente uniti, anche attraverso il collegamento tramite i mezzi di comunicazione sociale, e che per tanta gente collegata in rete è possibile fare la Comunione spirituale; ma «questa non è la Chiesa» - ha ribadito il Papa. La Chiesa non è costituita da un Popolo virtuale, ma reale e concreto che cresce e si fortifica con i Sacramenti, e in modo speciale con l’Eucaristia: «La Chiesa, i Sacramenti, il Popolo di Dio sono concreti. È vero che in questo momento dobbiamo fare questa familiarità con il Signore in questo modo, ma per uscire dal tunnel, non per rimanerci». Tutti, giustamente, a livello economico pressano per uscire dal tunnel dell’immobilismo lavorativo che sta mettendo in ginocchio le imprese e le famiglie; per la Chiesa uscire dal tunnel significa superare al più presto questa situazione di incertezza e di precarietà sacramentale e comunitaria. Il Popolo di Dio ha urgente bisogno di cibarsi di Eucaristia, ha necessità di celebrare il sacramento della Riconciliazione e gli altri Sacramenti, per non rischiare il deperimento spirituale, che – per chi ha fede - non è meno grave di quello fisico per mancanza di cibo. Il Papa ci tiene a dire che questa inedita situazione ecclesiale non può essere l’ideale di Chiesa e che per crescere nella familiarità con il Signore bisogna tornare a condividere tutto: «la comunità, i Sacramenti, il Signore, la pace, la festa». È quello che ci auguriamo con tutto il cuore per la vita e la crescita delle nostre comunità ecclesiali!

giovedì 9 aprile 2020

IL MISTERO DI GIUDA!?


IL DIO TRADITO
  
Francesco: “Pensiamo ai tanti Giuda istituzionalizzati in questo mondo, che sfruttano la gente. E pensiamo anche al piccolo Giuda che ognuno di noi ha dentro di sé nell’ora di scegliere: fra lealtà o interesse”.



di Antonino Legname

Nella Meditazione della Messa a Santa Marta, l’8 aprile 2020, Papa Francesco ha parlato del tradimento di Giuda. Anche oggi - dice il Papa - ci sono i Giuda, cioè persone che sono disposte a tradire per i propri interessi personali e materiali, non solo gli amici più cari, ma volte anche i familiari. Anche oggi ci sono persone che facendo apparire di servire Dio, in realtà servono il denaro e ne diventano schiavi. Giuda era attaccato al denaro e chi ama troppo i soldi, prima o poi tradisce. Ma chi di spada ferisce di spada perisce, e alla fine Giuda, che tradisce Gesù viene tradito dal diavolo, che è un “mal pagatore” –  ha detto Francesco - che lascia nella disperazione. E così Giuda finisce per impiccarsi. Il Papa ha denunciato non solo i tanti «Giuda istituzionalizzati» di oggi, che usano la gente per i propri interessi, ma anche i piccoli Giuda che albergano dentro di noi: ognuno di noi a volte è spinto a tradire per amore dei soldi o dei beni materiali. C’è gente che per amore dei soldi – dice il Papa - “è capace di vendere la propria madre”. Non si può far finta di servire Dio, quando poi in realtà si serve il denaro, e alla fine si viene asserviti da esso e si diventa schiavi di questo Moloch, di questo vitello d’oro, al quale si è disposti a sacrificare la propria dignità e a volte anche gli affetti più cari. Purtroppo, oggi sono tanti i «discepoli di Giuda», di questo Apostolo e amico di Gesù, il quale tradisce e vende il Maestro per denaro, per trenta denari. Dice il Papa: «L’amore al denaro lo aveva portato fuori dalle regole, a rubare; e da rubare a tradire c’è un passo, piccolino. Chi ama troppo i soldi tradisce per averne di più, sempre: è una regola, è un dato di fatto». Questa bramosia e avidità di possedere si chiama «pleonexia»: più si ha e più si vuole avere. E a quel punto – come dicevano i Padri della Chiesa – l’uomo diventa come un orcio perforato, in riferimento all’insaziabilità dei suoi desideri: mai contento e sempre vuoto e insoddisfatto. Anche Sant’Agostino ha fatto quest’amara esperienza dell’insoddisfazione, fino al punto di dire: «Ci hai fatti per Te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te». Giuda fu così avido di denaro da arrivare al gesto più riprovevole: vendere l’amico. Papa Francesco, però, ci tiene a dire che Gesù non additò mai Giuda come il «traditore»; Gesù «dice che sarà tradito, ma non dice a Giuda “traditore”. Mai gli dice: “Vai via, traditore”. Mai! Anzi, gli dice: “Amico”, e lo bacia. Il mistero di Giuda … Com’è il mistero di Giuda? Non so! – risponde Francesco - Don Primo Mazzolari l’ha spiegato meglio di me». 
Papa Francesco in visita a Bozzolo presso la tomba di don Primo Mazzolari

Cosa ha detto don Primo Mazzolari a proposito di Giuda? È famosa la vibrante riflessione che don Mazzolari fece il Giovedì Santo del 1957, quando disse ai suoi parrocchiani che avrebbe parlato di: «un nome che fa spavento, il nome di Giuda il traditore». Ancora oggi, quando a qualcuno si vuol dire che è un traditore si dice: «sei un Giuda». Mazzolari esorta i suoi fedeli a non tradire il Signore, «perché chi tradisce il Signore tradisce la propria anima, tradisce i fratelli, tradisce la propria coscienza, tradisce il proprio dovere e diventa un infelice». E pensando a Giuda esclama: «Povero Giuda!». Non bisogna meravigliarsi di questa parola perché Giuda è stato un «infelice discepolo che ad un certo momento non ha potuto mantenere fedeltà al suo Maestro». Non sappiamo quello che è passato nella mente e nell’animo di Giuda, ma – dice Mazzolari - «questa sera vi domando un po' di pietà per il nostro povero fratello Giuda». E allora, non bisogna vergognarsi di assumere questa fratellanza, soprattutto se pensiamo a quante volte noi abbiamo tradito il Signore. Noi chiamiamo Giuda «fratello», Gesù nel Getsemani lo chiama «amico». Gesù nel Cenacolo aveva detto ai suoi Apostoli: «non vi chiamo servi, ma amici». E continua a chiamarli amici anche quando lo tradiscono, lo rinnegano, lo abbandonano. Nel tradimento di Giuda dobbiamo vedere il «mistero del male» che in qualche misura, prima o poi, travolge e avvolge tutti. Il male ha un nome «Satana». Ed è questa presenza diabolica che ha preso possesso del cuore di Giuda spingendolo al male. Papa Francesco spiega: «il diavolo entrò in Giuda, è stato il diavolo a condurlo a questo punto. E come finì la storia? Il diavolo è un mal pagatore: non è un pagatore affidabile. Ti promette tutto, ti fa vedere tutto e alla fine ti lascia solo nella tua disperazione ad impiccarti». Don Primo Mazzolari è molto chiaro quando dice che ci sono persone che fanno il mestiere di Satana con l’obiettivo di «distruggere l’opera di Dio; desolare le coscienze; spargere il dubbio; insinuare l’incredulità; togliere la fiducia in Dio; cancellare Dio dai cuori». Il diavolo non è una finzione teologica e neppure una metafora del male, ma - come diceva Paolo VI - è “un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore. Terribile realtà. Misteriosa e paurosa”. Papa Francesco spesso parla del diavolo, non per incutere timore, ma per far capire qual è la missione del diavolo nel mondo: dividere e distruggere: “Satana è astuto – ci ricorda Francesco - e se qualcuno dovesse obiettare: «ma padre, che antico è lei, parlare del diavolo nel secolo ventunesimo!» Ma “guardate che il diavolo c’è! - ha ribadito il Papa - Il diavolo c’è anche nel secolo ventunesimo. E non dobbiamo essere ingenui. Dobbiamo imparare dal Vangelo come fare la lotta contro di lui”. In fondo «la più grande astuzia del diavolo è quella di farci credere che non esiste» – come diceva il poeta francese Charles Boudleaire. E allora bisogna stare attenti, essere svegli e pregare – dice Gesù - «per non entrare in tentazione». E la tentazione – annota il Papa - incomincia col denaro: «Il diavolo entra dalle tasche». Questo è successo a Giuda: «Quanto mi date perché io ve lo consegni?». Trenta denari! E il baratto è fatto. Giuda ha venduto il tesoro prezioso dell’amicizia con Cristo per pochi denari. Giuda ha la mente annebbiata. Papa Francesco dice: «A mio avviso, quest’uomo era fuori di sé». Egli inizialmente non si rende conto della gravità del suo gesto. Solo dopo capisce, quando vede Gesù condannato, flagellato, coronato di spine; e a quel punto vorrebbe rimediare: prende i trenta denari e li butta davanti a coloro ai quali aveva venduto Gesù. Ma ormai è troppo tardi. Papa Francesco ha spiegato: «Il cuore di Giuda, inquieto, tormentato dalla cupidigia e tormentato dall’amore a Gesù, un amore che non è riuscito a farsi amore, tormentato con questa nebbia, torna dai sacerdoti chiedendo perdono, chiedendo salvezza. “Cosa c’entriamo noi? È cosa tua …”: il diavolo parla così e ci lascia nella disperazione». E Giuda si dispera fino al punto di togliersi la vita: «Povero Giuda! Povero fratello nostro!» - esclama con pena don Mazzolari. E aggiunge: «il più grande dei peccati non è quello di vendere il Cristo, è quello di disperare». E Giuda disperò del perdono e della misericordia di Dio. In fondo anche Pietro aveva rinnegato il Maestro, ma poi si pentì e pianse amaramente; e il Signore lo ha perdonato rimettendolo al suo posto; anzi lo ha fatto suo Vicario. Anche gli Apostoli abbandonarono il Signore, ma poi tornarono pentiti. Anche per Giuda, se non si fosse disperato, ci sarebbe stato lo stesso trattamento. Don Mazzolari si scusa con i suoi fedeli per aver parlato di Giuda come di un «povero fratello», e aggiunge: «Io voglio bene anche a Giuda … è mio fratello e pregherò per lui … perché io non giudico, io non condanno. Dovrei giudicare me, dovrei condannare me». Papa Francesco nella Meditazione di questa mattina si domandava: «Giuda è all’Inferno? Non so. Io guardo il capitello. E sento la parola di Gesù: “Amico”». A quale capitello si riferisce il Papa? 
Si tratta del capitello che si trova nella chiesa di Santa Maria Maddalena a Vézelay, in Francia. Il Papa, in più occasioni ha avuto modo di spiegare: «c’è un capitello bellissimo, del 1200 più o meno. I medievali facevano catechesi con le sculture delle cattedrali. Da una parte del capitello c’è Giuda, impiccato, con la lingua fuori, gli occhi fuori, e dall’altra parte del capitello c’è Gesù, il Buon Pastore, che lo prende e lo porta con sé. E se guardiamo bene la faccia di Gesù, le labbra di Gesù sono tristi da una parte ma con un piccolo sorriso di complicità dall’altra. Questi avevano capito cos’è la misericordia! Con Giuda!». Gesù, nel momento stesso in cui Giuda consuma il tradimento attraverso uno dei segni più sacri dell’amore, «il bacio», tira fuori dal vocabolario del proprio cuore un unico nome: «Amico!». Non mi scandalizza che Gesù abbia chiamato il traditore “Amico”, perché anch’io continuo ad essere chiamato da Gesù “amico” nonostante lo abbia tradito tante volte. Gli stessi Apostoli, quando Gesù dice: «In verità vi dico: uno di voi mi tradirà!», hanno coscienza che ognuno di loro poteva essere il traditore: «Sono forse io, Rabbì?». Don Primo Mazzolari dice: «Io non posso non pensare che anche per Giuda c’è stata la misericordia di Dio, questo abbraccio di carità, quella parola “amico” che gli ha detto il Signore mentre lui lo baciava, per tradirlo». Forse Giuda avrà capito quanto Gesù gli volesse bene quando il Maestro ha accettato quel «bacio» e gli ha detto «amico». È una grande sofferenza l’amico che si trasforma in nemico. Papa Francesco annota: «Gesù minaccia forte, quando dice: “Guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’Uomo viene tradito: meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!”». Ma stiamo attenti a non puntare il dito con molta facilità contro Giuda. Pensiamo al Giuda che c’è dentro ciascuno di noi. «Pensiamo ai tanti Giuda istituzionalizzati in questo mondo, che sfruttano la gente – ha detto Papa Francesco - E pensiamo anche al piccolo Giuda che ognuno di noi ha dentro di sé nell’ora di scegliere: fra lealtà o interesse. Ognuno di noi ha la capacità di tradire, di vendere, di scegliere per il proprio interesse. Ognuno di noi ha la possibilità di lasciarsi attirare dall’amore dei soldi o dei beni o del benessere futuro. “Giuda, dove sei?”. Ma la domanda la faccio a ognuno di noi: “Tu, Giuda, il piccolo Giuda che ho dentro: dove sei?”. Chiediamo a Gesù di continuare a chiamarci «amici», nonostante i nostri quotidiani tradimenti al suo amore. In fondo siamo tutti dei «poveri Giuda», che Cristo ama e perdona. Importante è pentirsi di aver voltato le spalle al Signore, di averlo venduto nel mercato ideologico della vita; quello che conta è non disperare della sua misericordia. Per il Signore noi saremo sempre gli «amici». Così concludeva don Primo Mazzolari la sua Meditazione su Giuda: «A me Giuda, a me Pietro, a me apostolo che fuggo e tradisco; a voi, discepoli del Signore, con tutta la vostra debolezza, la vostra miseria, la vostra poca fede, il Signore ha dato il dono dell’Eucaristia».

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