LE TRE NAVI DELLA SOLIDARIETA’
L’arcivescovo Lorefice: «Una civiltà che si fondi sul “mors tua, vita mea”, una civiltà in cui
sia normale che qualcuno viva perché un altro muore, è una civiltà che si avvia
alla fine».
di Antonino Legname
Forte, vibrante e chiaro – senza
giri di parole - è stato il Discorso che, il 15 luglio 2018 a Piazza Marina, l’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice,
ha rivolto alla cittadinanza, in occasione del “festino di Santa Rosalia”: «Il
giogo della mafia e di tutte le mafie – penso alla malavita, alla mentalità
mafiosa – stringe il nostro territorio, penetra nelle nostre case, inquina la
vita sociale, si incunea nella politica, persino in alcuni ambienti ecclesiali,
con una tracotanza che ci lascia attoniti». Il tempo difficile che stiamo
vivendo ci chiede di stare svegli e di guardare con occhi aperti «i segni dei
tempi», che – ha spiegato Lorefice – sono «gli eventi della storia concreta
delle donne e degli uomini d’oggi che ci parlano, ci chiamano ad un cambiamento».
L’arcivescovo si è servito dell’immagine della nave - sulla quale viene portata
l’immagine di S. Rosalia per le strade di Palermo - per lanciare il suo
messaggio di denuncia e di speranza. Tutti sono invitati a salire idealmente su
queste tre navi che rappresentano: Palermo, l’Italia e l’Europa. E per ognuna
di queste navi, Lorefice ha evidenziato la fatica e le grandi difficoltà di
navigazione. Anzitutto, la nave di Palermo, carica di tanti problemi, per
esempio: il lavoro che manca, i nostri giovani che perdono la speranza e si
sentono costretti a partire, le nostre periferie dove si vivono tanti disagi e
aumentano i poveri. Il Pastore della Chiesa di Palermo chiede con urgenza e con
coraggio di dare voce alle periferie, dove «il vero grande pericolo non è la
paura, ma è la rabbia, è la rassegnazione, è l’evasione». Mons. Lorefice chiede
a tutti, specialmente ai giovani, di non lasciarsi manipolare e di prendere in
mano la vita e il futuro della Città di Palermo, tante volte colpita, ferita e
infangata dalla violenza mafiosa. «Non lasciamo in mano a nessuno il nostro
destino – ha esortato l’Arcivescovo - guardiamo
ai nostri testimoni, ai nostri martiri». Il ricordo va immediatamente a don
Pino Puglisi, a 25 anni dalla sua morte, a Libero Grassi e a Piersanti
Mattarella, tutti stroncati per mano della mafia. Ma dal sangue dei martiri
nasce la speranza «che un mondo diverso è possibile e che la forbice tra chi ha
e chi non ha può essere annullata da un pensiero di autentica condivisione» e
di crescita della legalità. Per non restare curvi sotto il peso della cultura
mafiosa occorre convincersi che la «nostra terra avrà un futuro se avremo la
pazienza, il coraggio, la forza di costruirlo assieme» - ha detto Lorefice. Ma
anche la seconda nave, quella dell’Italia, non naviga in un mare tranquillo,
anzi rischia di fare acqua da tutte le parti. Come si può parlare di civiltà
quando il principio su cui si fonda una certa cultura, impregnata di nazionalismo populista, è “mors tua, vita mea”? Mons. Lorefice, senza
peli sulla lingua, dice che «una civiltà in cui sia normale che qualcuno viva
perché un altro muore, è una civiltà che si avvia alla fine». Come si può
pretendere di costruire la propria felicità e il proprio benessere sull’infelicità
altrui? - si domanda Lorefice. Purtroppo, non solo a livello personale ma anche a livello planetario,
i cattivi esempi non mancano. Basti pensare allo sfruttamento selvaggio
dell’Africa, depredata delle sue materie prime, da parte dei Paesi
dell’Occidente. La denuncia dell'Arcivescovo è puntuale e severa: «Siamo noi i predoni
dell’Africa! Siamo noi i ladri che, affamando e distruggendo la vita di milioni
di poveri, li costringiamo a partire per non morire: bambini senza genitori,
padri e madri senza figli». E da qui il discorso di Lorefice si concentra
sull’esodo epocale che si abbatte sull’Europa. È la migrazione forzata di una
marea di uomini, donne e bambini che dai Paesi poveri e martoriati dalla guerra
viaggiano tra mille difficoltà e pericoli verso la nostra Europa.
Ma come è possibile
che non riusciamo a riconoscerci tutti come fratelli, «fratelli diversi» - ha
specificato Lorefice – «ma fratelli». Ed ha evidenziato che la parola
«fratello!» è bellissima, ma «appare settaria se non indica una apertura totale
a tutti, al più vicino e al più lontano!». Quando ci convinceremo che l’umanità
è una sola grande famiglia e tutti gli uomini hanno lo stesso diritto di essere
abbracciati dalla madre terra e di vivere nella grande casa comune? Domanda inquietante per le nostre coscienze. Infatti, «se la
casa comune si distrugge – ha avvertito Lorefice - tutti resteremo
all’addiaccio, privi di un tetto». Che senso ha la logica egoistica e fallace
del ‘prima noi’? Questo modo di pensare crea solo discriminazioni e divisioni
tra i Paesi della stessa Europa. L’Arcivescovo di Palermo biasima e condanna
senza mezzi termini «la miopia dell’egoismo politico, propugnato da governanti
e da politici europei che spesso si vantano – soprattutto nell’Est – di
costruire regimi privi delle garanzie e fuori dai confini minimi della
democrazia». Cosa fa la Chiesa di fronte a questo scenario di gretta chiusura
di alcuni Paesi dell’Europa ammalati di nazionalismo esasperato? Lorefice
chiede con determinazione alla Chiesa di non restare in silenzio. Sarebbe un
gravissimo peccato di omissione tacere di fronte a questo dramma che si consuma
ogni giorno davanti ai nostri occhi; la Chiesa non deve mai dimenticare che per
sua natura costitutiva deve stare «accanto ai poveri e ai derelitti della
storia, e tutte le volte che è uscita – e quante volte è successo – [è uscita]
da quel posto per mettersi accanto ai forti, ai ricchi, ai potenti, ha perso il
senso stesso del suo essere». L’appello del Pastore della Chiesa di Palermo
si fa accorato quando chiede ai nostri Governanti di non chiudere i porti alle
navi della speranza di tanta povera gente che cerca protezione e una vita
migliore. «Perché se fermiamo le navi dei poveri, se chiudiamo i porti, siamo
dei disperati. Disperiamo della nostra umanità, disperiamo della nostra voglia
di vivere, del nostro desiderio di comunione». Alla fine, «non è questione di
accoglienza - ha evidenziato il prelato - non si tratta di essere buoni, ma di essere giusti. Non di fare
opere buone, ma di rispettare e, se necessario, ripensare il diritto dei popoli»,
ossia il «diritto di ogni uomo ad essere uguale, ad essere membro della città
degli uomini, ad essere libero di vivere e di stare nel mondo, con dignità e
fierezza. Mons. Lorefice, a conclusione del suo Discorso, lancia la scommessa
ambiziosa per la costruzione di una nuova civiltà, in nome del Vangelo: «una civiltà dove nessun
bambino venga educato a vedere nel diverso un nemico, una civiltà dove i
governanti abbiano la passione per gli ultimi e per il rispetto della vita».